Affari di famiglia

La condanna al senatore Marcello Dell’Utri: da Repubblica.it l’analisi di Giuseppe D’Avanzo e la descrizione del personaggio fatta da Attilio Bolzoni.

L’anello di congiunzione
tra i boss e il Cavaliere

di GIUSEPPE  D’AVANZO

UNA sentenza ripete per la seconda volta, in appello, una verità tragica: Marcello Dell’Utri, l’uomo che ha accompagnato passo dopo passo, curva dopo curva, tutt’intera l’avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi è stato un amico dei mafiosi, l’anello di un sistema criminale, il facilitatore a Milano degli affari e delle pretese delle “famiglie” di Palermo, prima del 1980. Dei Corleonesi, almeno fino al 1992 quando cadono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Se sarà confermata dal giudizio della Cassazione, è una “verità” tragica perché ricorda quanto le fortune del Cavaliere abbiano incrociato e si siano sovrapposte agli interessi mafiosi e rammenta come  –  ancora oggi  –  possa essere vigoroso il potere di ricatto di Cosa Nostra su chi governa, sui soci di Berlusconi, forse sullo stesso capo del governo. È stupefacente, alla luce di queste osservazioni, il vivamaria che minimizza, ridimensiona, sdrammatizza l’esito della sentenza di Palermo. Come naufraghi al legno, ci si aggrappa  –  uno per tutti, lo spudorato Minzolini retribuito con pubblico denaro  –  alla riduzione della pena di due anni. Dai nove del primo grado ai sette anni di oggi, contro gli undici chiesti dall’accusa in appello. La decisione della corte conclude infatti che “dal 1992 ad oggi, il fatto (il soccorso offerto da Dell’Utri a Cosa Nostra) non sussiste”. Prima di affrontare ciò che la sentenza esclude, è un obbligo esaminare ciò che i giudici confermano.

Per farlo, è utile riproporre, liberato dal groviglio di gerundi, il capo di imputazione che la sentenza approva e punisce. Sono parole così chiare e aspre che saranno accantonate per prime dal dibattito pubblico e dai ministri del culto di Arcore.

Dunque, si legge nel capo di imputazione: Marcello dell’Utri ha “concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra”, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell’associazione l’influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell’organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare  –  a vantaggio dell’associazione  –  individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982″.

Di questo parliamo. Di un uomo che, a disposizione della mafia, è stato l'”intermediario” fra Cosa Nostra e il gruppo di Silvio Berlusconi. La ricostruzione che la corte approva e condivide è precisa. Marcello Dell’Utri media e risolve, di volta in volta, i conflitti nati tra le ambizioni di Cosa Nostra e la disponibilità di Berlusconi. Anzi, proprio il suo compito di “artefice delle soluzioni” gli permette di occupare un ruolo decisivo alla destra del Capo. Il ruolo di Dell’Utri va scorto e compreso nella relazione tra le pressioni scaricate dai mafiosi su Berlusconi e le mediazioni e gli incontri organizzati da Dell’Utri. Il patron di Fininvest, negli anni Settanta, è minacciato di sequestro (si tenta di rapire a mo’ di dimostrazione un suo ospite). Gli piazzano una bomba in via Rovani nel 1975 e ancora nel 1986. Negli anni Novanta tocca alla Standa subire in Sicilia, a Catania, un rosario di attentati. Ora alla sequela di pressioni, minacce, intimidazioni, che la mafia scatena per condizionare il Cavaliere, entrare in contatto con lui, “spremerlo”, bisogna sovrapporre il lavorio d’ambasciatore di Dell’Utri se si vuole valutarne il ruolo. Organizza l’incontro tra Berlusconi e i “mammasantissima” Stefano Bontate e Mimmo Teresi per “rassicurarlo” dal pericolo dei sequestri. Fa assumere Vittorio Mangano ad Arcore, come fattore, per cementare “un accordo di convivenza con Cosa Nostra”. Cerca di capire che cosa accade e che cosa si nasconde dietro l’attentato a via Rovani. Incontra, nel 1990, i capimafia catanesi e, soprattutto, Nitto Santapola, della combriccola il più pericoloso, per risolvere i problemi degli attentati alla Standa (dopo quell’incontro, non ci saranno più bombe). Sono fatti che oggi, dopo la sentenza di Palermo, devono dirsi documentati (il giudizio della Cassazione è soltanto di legittimità). Il quadro probatorio avrebbe potuto essere più dettagliato e significativo se Silvio Berlusconi (“vittima di quelle minacce, di quelle intimidazioni, di quelle pressioni”) non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere rifiutando il suo contributo di verità per chiarire  –  per dire  –  l’assunzione e l’allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore; i suoi rapporti con Dell’Utri; gli anomali movimenti di denaro nelle casse della holding del gruppo Fininvest in coincidenza con la volontà delle famiglie di Palermo di investire a Milano.

Questa narrazione ha superato ora il vaglio del giudizio di appello (definitivo per il merito dei fatti) e legittima una prima conclusione: la sentenza di Palermo non dice soltanto di Dell’Utri, racconta anche di Berlusconi perché conferma quella sorta di “assicurazione” con la mafia che il Cavaliere sottoscrive ingaggiando e promuovendo il suo ex-segretario personale e compagno di studi. Non c’è dubbio che, con questo risultato, Berlusconi paga in Italia e nel mondo un prezzo molto imbarazzante al suo passato. Un onere non giudiziario, ma un costo decisivo, politico e d’immagine. Perché se si assemblano le tessere raccolte in questi anni emerge con sempre maggiore nitidezza, e nonostante l’ostinatissima distruzione della macchina giudiziaria, quali sono il fondo, le leve, le pratiche e i comprimari del successo di Silvio Berlusconi, dove Dell’Utri è soltanto un tassello, una delle concatenazioni oscure della sua fortuna, la più disonorevole forse, ma non la sola. Il puzzle è questo. Il Cesare di Arcore ha corrotto un testimone (Mills) che lo salva da una condanna, anzi da due (prescritto). Ha comprato un giudice (Metta) e la sentenza che gli hanno portato in dote la Mondadori (prescritto). Ha finanziato illecitamente il Psi di Bettino Craxi che gli ha scritto i televisivi decreti leggi ad personam (prescritto). Ha falsificato per 1500 miliardi i bilanci della Fininvest (prescritto). Ha manipolato i bilanci sui diritti-tv tra il 1988 e il 1992 (prescritto). Già potrebbe bastare e invece, alla sua sinistra, agisce (ancora oggi) un avvocato (Previti) condannato per la corruzione dei giudici e, alla sua destra, (ancora oggi) c’è un uomo (Dell’Utri) a disposizione degli interessi mafiosi. Questo è il triste tableau che accompagna Silvio Berlusconi e il malcostume e gli illegalismi che lo circondano  –  da Scajola a Lunardi, da Bertolaso a Brancher  –  non ne sono che un ragionato riflesso.

I corifei possono anche strepitare e manipolare i fatti. La scena  –  tragica per il Paese  –  non può essere temperata o adulterata dalla riduzione della condanna di Dell’Utri di due anni né dalla conclusione della corte di Palermo di considerare l’insussistenza del concorso in associazione mafiosa “dal 1992 in poi”. Bisognerà attendere le motivazioni per valutare questa decisione che colora di nero la silhouette del “Berlusconi imprenditore” liberando da ogni dubbio e responsabilità (sembra) il “Berlusconi politico”. La contraddizione non può far felice il capo del governo. L’imprenditore passerà alla storia come il boss di una banda di criminali. Il politico dovrà guardarsi da un’incoerenza giudiziaria che stimolerà  –  più che deprimere  –  le inchieste sulla trattativa tra Stato e Mafia, avviata con le stragi del 1992 e accompagnata dalle bombe del 1993.

(30 giugno 2010)

IL PERSONAGGIO

Dell’Utri da Cinà allo stalliere 25 anni di amicizia coi boss

di ATTILIO BOLZONI
Tutto quello che sapevamo è sentenza. Tutti i suoi legami con i capi di Cosa Nostra sono stati provati e anche confermati. Era l’ombra di Silvio Berlusconi e intanto si mescolava a loro, trafficava con loro. La complicità di Marcello Dell’Utri con i boss siciliani è stata molto lunga nel tempo: una mafiosità che è durata venticinque anni.
E’ passata attraverso due generazioni di Padrini, attraverso una guerra che ha fatto più di mille morti, attraverso “eroi” come Vittorio Mangano che sono transitati da una famiglia all’altra dopo un tradimento per salvarsi la pelle. Ha resistito ai cambi di guardia del grande potere criminale di Palermo, di boss in boss, prima con i Bontate e con i Teresi e poi Totò Riina e i suoi Corleonesi.

E’ rimasto sempre lì, il senatore Dell’Utri è rimasto sempre incollato ai suoi amici siciliani, tutti i sopravvissuti, tutti quelli che stagione dopo stagione comandavano e uccidevano. Dal giorno che lui è arrivato a Milano non ha mai interrotto i suoi rapporti con loro, mai rinnegato il patto che aveva sottoscritto prima di sbarcare alla corte di quello che sarebbe diventato il capo del governo italiano.

Nomi. Da Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto “Robertino” a Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. Luoghi. Dal campetto della Bacigalupo nella borgata dell’Arenella alla principesca Villa Casati. Incarichi. Segretario particolare di Silvio prima, poi amministratore di Pubblitalia, poi ancora < fondatore del partito che avrebbe cambiato i destini del Paese. Una scalata che non si è fermata mai. E dietro di lui, Marcello, c'erano sempre loro: il "clan dei siciliani".

Se è intorno alla metà degli Anni Sessanta che si rintracciano le sue prima relazioni con riciclatori di denaro sporco e trafficanti di stupefacenti, è nel 1974 che c’è certezza di un collegamento più forte e “strutturato” con i capi della criminalità palermitana. É l’arrivo di Vittorio Mangano (e non a caso il senatore non si è stancato mai di ripetere cosa ha rappresentato per lui lo “stalliere”, l’ha fatto persino ieri subito dopo la condanna) a Milano che segna l’inizio di questa spericolata avventura dell’anonimo impiegato della Sicilcassa all’agenzia di Belmonte Mezzagno. É Vittorio Mangano uno delle “giunture” della storia di mafia e di investimenti che ha reso famoso e potente il futuro senatore, è l’uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova che sbarca in Lombardia, “e dal 1974 fino all’ottobre del 1976 fissa la sua residenza in Arcore, via San Martino n.42, cioè la via confinante con la villa di Berlusconi, denominata appunto Villa San Martino…”. Il Mangano che è il collegamento fra la Cupola che sta a Palermo e Dell’Utri che sta ormai a Milano, il Mangano che prima prende ordini dal capo Stefano Bontate e poi ordini dal capo Salvatore Riina.

C’è una “continuità” nel mondo di mafia e una “continuità” nelle complicità di mafia: Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri seguono lo stesso percorso, subiscono gli stessi contraccolpi per le instabilità di Cosa Nostra, approdano entrambi nelle mani dei nuovi padroni dopo avere servito quelli vecchi.
É fra il 1974 e il 1975 che tutto diventa più chiaro, se si può dire “ufficiale”. I primi incontri di boss “là sopra”, i rappresentanti della famiglia di Santa Maria del Gesù che salgono in massa in via Larga (“Alla riunione eravamo presenti io, Tanino Cinà, Stefano Bontate, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi”, rivelerà il pentito Francesco Di Carlo), le cene, i latitanti nascosti. E Vittorio Mangano sempre lì a fare il guardiano a cavalli che secondo i poliziotti non erano cavalli, a badare stalle che non c’erano, ad aggirarsi fra Arcore e Milano in attesa delle disposizioni dei suoi capi di Palermo. C’è tutto questo – ci sono le prove adesso – nella sentenza contro il senatore che dopo le stragi siciliane s’inventò un partito che sarebbe diventato il primo partito in Italia.

Dalla metà degli Anni Settanta alla fine degli Anni Ottanta: antenne (gli interessi di Bontate e Teresi nel settore televisivo) e palazzi (il risanamento del centro storico di Palermo), i rapporti con il finanziere Filippo Alberto Rapisarda e quelli con i soci di Vito Ciancimino, le telefonate al commercialista (Giuseppe Mandalari) di Totò Riina, gli intrecci con le cosche catanesi. Tutto è dentro il verdetto. Tutto l’impianto accusatorio – l’istruttoria è stata avviata 16 anni fa – è stato praticamente convalidato. E accertata la mafiosità di Marcello Dell’Utri.
Resta in sospeso il dopo, dal 1992 agli anni a seguire. Che cosa significa l'”assoluzione” dalla stagione delle stragi in poi – è nel 1994 che Berlusconi entra in politica, risale almeno all’anno prima la decisione di fondare il nuovo partito – ce lo spiegheranno le motivazioni della sentenza. I giudici non hanno creduto a Gaspare Spatuzza (le cui rivelazioni sono state riversate nel processo in extremis, nell’ottobre del 2009, e senza procedere a un solo riscontro), ma non hanno creduto neanche ad Antonino Giuffrè, a Salvatore Cucuzza, a Calogero Ganci e a un piccolo drappello di pentiti catanesi che avevano raccontato la “disponibilità” di Cosa Nostra a sostenere Forza Italia dopo la fine dei vecchi partiti.

E, dopo avere “concorso” per venticinque anni, il senatore Marcello Dell’Utri dal 1992 avrebbe reciso all’improvviso i suoi rapporti con gli uomini d’onore della Sicilia. Proprio in quel momento. É sufficiente per far crollare – come sostengono i suoi amici di schieramento e i suoi avvocati – l’ipotesi di un rapporto mafia-politica, quella contiguità fra il senatore e i boss anche dopo le stragi? Lo scenario è più complicato di come sembra e più vasto di come lo può presentare solo il processo a carico di Marcello Dell’utri. C’è il dibattimento appena concluso in Appello ma ci sono anche indagini a Caltanissetta (sulle uccisioni di Falcone e Borsellino), c’è un fascicolo aperto a Firenze (le bombe in Continente del 1993) e un’inchiesta a Palermo sulla trattativa fra Cosa Nostra e Stato. D’ora in poi tutto partirà dalla sentenza di ieri, partirà da un punto: per venticinque anni il miglior amico e socio di Silvio Berlusconi, è stato anche uno dei migliori amici dei mafiosi siciliani. 
(30 giugno 2010)

Leave a Reply