La discussione sui beni pubblici e privati e segnatamente sui beni comuni ha recentemente ripreso vigore. Il dibattito su cosa sia da considerare pubblico e cosa debba essere considerato privato conosce sempre nuovI sviluppi ed ha un andamento oscillante, a seconda dei periodi storici e – spesso – dei cicli economici.
La crisi perdurante ha fatto stabilizzare questo pendolo, e magari quando usciremo dalla crisi, nel bilancio molto negativo di questi anni potremo inserire tra le poche cose positive proprio il concludersi di un dibattito che porti ad una nuova e consolidata disciplina dei beni pubblici. Pensate quanto è mutata la logica del mercato, che per anni ha esaltato il consumismo. Consumare, anche fonti energetiche non rinnovabili, veniva considerata quasi una funzione sociale che produceva ricchezza. Pensate quanta importanza viene data oggi, invece, al risparmio, a quello energetico in particolare. Si è trattata di una vera e propria rivoluzione dei costumi, rispetto alla quale l’assetto giuridico dei beni non si è ancora adeguato.
Soprattutto negli ultimi anni la scienza giuridica ha prodotto una notevole bibliografia in merito, con punti di vista variamente orientati. Su una cosa sono tutti concordi: l’inadeguatezza dell’assetto normativo in materia di beni pubblici, assetto che non è sostanzialmente cambiato dall’unità d’Italia ad oggi. La categoria dei Beni Comuni è stata un’espressione fino a poco tempo fa assente nella nostra discussione pubblica, del tutto priva d’interesse per la politica, nonostante nel 2009 il premio Nobel per l’economia sia stato assegnato a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi in questa materia.
Solo negli ultimi anni l’Italia ha cominciato ad essere percorsa da un fitto dibattito sui beni comuni. E questo è avvenuto perché la forza delle cose ha imposto un mutamento dell’agenda politica anche attraverso il referendum sull’acqua come “bene comune”. Da quel momento in poi è stato tutto un succedersi di iniziative concrete e di riflessioni teoriche, che hanno portato alla scoperta di un mondo nuovo e all’estensione di quel riferimento ai casi più disparati. Fino a diventare slogan politico “Italia Bene Comune”. Si è parlato di beni comuni per l´acqua e per la conoscenza, per la Rai e per il teatro Valle occupato, per le imprese, e via via elencando.
Innanzitutto, i cambiamenti tecnologici ed economici verificatisi fra il 1942 ed oggi hanno reso particolarmente obsoleta la parte del Codice Civile relativa ai beni pubblici. Alcune importanti tipologie di beni sono assenti. In primo luogo i beni immateriali, divenuta oggi nozione chiave per ogni avanzata economia. Tale assenza ad oggi non è più giustificabile. Altre tipologie di beni pubblici sono profondamente cambiate negli anni: si pensi ai beni necessari a svolgere servizi pubblici, come le reti.
La diversa considerazione assunta dalle risorse naturali, come l’acqua, l’aria, le foreste, i ghiacciai, la fauna e la flora tutelata, che stanno attraversando una drammatica fase di progressiva scarsità, oggi devono poter fare riferimento su di una più forte protezione di lungo periodo da parte dell’ordinamento giuridico.
In secondo luogo, una nuova filosofia nella gestione del patrimonio pubblico, ispirata a criteri di efficienza, che si è sviluppata anche a causa delle difficoltà e degli squilibri in cui si trovano gran parte dei bilanci pubblici europei, richiede da una parte un contesto normativo che favorisca una migliore gestione dei beni che rimangono nella proprietà pubblica, dall’altra la garanzia che il governo pro tempore non ceda alla tentazione di vendere beni del patrimonio pubblico, per ragioni diverse da quelle strutturali o strategiche, legate alla necessaria riqualificazione della dotazione patrimoniale dei beni pubblici del Paese, ma per finanziare spese correnti.
Si deve sancire il principio che eventuali dismissioni (ed eventuali operazioni di vendita e riaffitto dei beni) devono essere realizzate nell’interesse generale della collettività facendo salvo un orizzonte di medio e lungo periodo. Ovvero devono riguardare beni in eccesso delle funzioni pubbliche.
Si è resa necessaria una nuova classificazione dei beni. Si è imposta una nuova fondamentale categoria, quella dei beni comuni, che non rientrano, in senso stretto, nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati.
Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, i beni archeologici, culturali, ambientali. Se si assume questa definizione bisognerà prevedere una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future.
In particolare, la possibilità di loro concessione a privati deve essere quanto più limitata possibile.
Questa nuova concezione dei beni sposta l’accento non più sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. Non si tratta di un’altra forma di proprietà, dunque, ma dell’opposto della proprietà.
Di fronte alla portata epocale di un tale mutamento il nostro apparato normativo è inadeguato e la nostra organizzazione statale impreparata. Questo fortunatamente non ha bloccato le comunità. I beni comuni hanno messo in movimento molte cose a cominciare dalle teste delle persone perché non si tratta un’astrazione o di un tema che deve appassionare studiosi ed addetti ai lavori, i beni comuni sono intrinsecamente collegati ai diritti fondamentali dei cittadini ed alla loro vita quotidiana. E infatti sono molte le iniziative sorte in tutta Italia attorno a questi temi. Proprio perché i beni comuni interessano e servono alla collettività, si può pensare che si possa affidarne la “manutenzione” ai cittadini. E la funzione di indirizzo del potere pubblico potrebbe limitarsi nel mettere “a sistema” con delle cabine di regia le singole esperienze di cura civica dei beni comuni, sarebbe un modo per dare attuazione all’art. 118 ultimo comma della Costituzione, che prescrive ai soggetti pubblici di “favorire le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
In questo ambito non mancano buone prassi ed esperienze di comunità che si spendono per la cura dei beni comuni: esperienze di chi si identifica e si impegna a favore della comunità e dei suoi luoghi, per prendersi cura delle risorse di tutti: degli spazi, dei luoghi, delle bellezze.
Non mancano esempi di riqualificazione di spazi verdi, la manutenzione degli arredi della strada e la pulizia della pavimentazione dei centri storici
Sono nati una pluralità di progetti lungo la direttrice di recupero e valorizzazione degli spazi pubblici attuata con procedure partecipative particolarmente ampie.
Anche per questi motivi sono stati costituiti appositi uffici o assessorati per investire direttamente anche i profili organizzativi e normativi degli uffici competenti dei Comunii quali costituiscono un passaggio chiave per assicurare operatività ai soggetti della società civile disponibili ad operare su questi terreni e con questi progetti.
La dimensione giuridica, economica e dei beni comuni è così pervasiva e significativa da costringere la politica a cercare di riappropriarsene, a cercare di proporre un ragionamento che permetta di riannodare i fili con la società civile che su questi temi è avanguardia.
Questa potrebbe rappresentare per la politica la sfida per eccellenza dei prossimi anni,. Attraverso i beni comuni potrebbe ricostruirsi quel senso di comunità, di appartenenza, di identità, che un malinteso concetto di globalizzazione ha fatto smarrire.
Penso che una nuova politica, che ultimamente tutti sembra vogliano auspicare, passi dalla capacità dei tradizionali canali di rappresentanza, i partiti e i sindacati, le istituzioni di dialogare nuovi attori che sono protagonisti nei territori di autentici percorsi di innovazione e cambiamento.
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