Carceri, una riflessione sul senso della pena

penaUna riflessione sul senso della pena e sui limiti entro i quali va esercitato e trova legittimità il diritto di punire dello Stato. Temi di straordinaria e importanza e attualità su cui ci siamo confrontati domenica scorsa nella sede dell’Università di Messina, in occasione del convegno su “Il senso della pena nell’era della globalizzazione tra passato, presente e futuro”, organizzato dal Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza. Svolgere queste riflessioni a quarant’anni dall’approvazione della legge sull’ordinamento penitenziario e all’esito di un processo politico e legislativo che ha visto il nostro Paese dover fronteggiare l’onta di una condanna per violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nell’ormai più che nota sentenza “Torreggiani e altri contro l’Italia”, ci offre la possibilità non solo di volgere lo sguardo a quanto accaduto, ma di poter riflettere di prospettive in assenza di una situazione emergenziale.

La legge 254 del 1975 che ancora oggi conserva nei suoi principi ispiratori una grande modernità, rappresentò per il nostro Paese un decisivo passo in avanti per colmare l’enorme divario che ormai si era creato tra i principi espressi nella nostra Carta costituzionale e un sistema penale e penitenziario che rimaneva ancorato nei sui cardini legislativi al regime fascista.
La Costituzione Italiana, insieme a poche altre costituisce in questo ambito un esempio di straordinaria originalità. Essa, infatti, va oltre la comune demarcazione dei limiti “negativi” entro i quali va esercitato il diritto di punire, contenendo esplicite indicazioni “positive” sulla finalità della pena.
Il messaggio costituzionale contenuto al comma 3 dell’articolo 27 visse, tuttavia, sino al nuovo ordinamento penitenziario, accanto alla normativa fascista espressa nel regolamento degli istituti di prevenzione e pena del 1931. Solamente dopo una lunga stagione di rivolte e episodi di violenza all’interno dei nostri istituti penitenziari, il Parlamento riuscì attraverso una faticosa gestazione a porre le basi per una nuova stagione.
Un’immagine di straordinaria efficacia delle carceri italiane all’indomani del varo della Costituzione, ci viene resa da uno scritto di Pietro Calamandrei sulla rivista “Il Ponte”:
“Le carceri italiane, cimitero dei vivi: erano così cinquant’anni fa, sono così oggi, quasi immutate […] Il sistema penitenziario italiano anzi, sotto qualche aspetto, è peggiorato […] E ciò per due ragioni: sotto l’aspetto edilizio e igienico, perché la seconda guerra mondiale con tutte le rovine da essa causate, ha distrutto numerosi stabilimenti di pena, in modo che oggi nelle prigioni vi è una spaventosa crisi degli alloggi, che condanna a rimanere stivata in locali diminuiti di numero e ridotti spesso a nude mura, una popolazione sovrabbondante; e sotto l’aspetto spirituale, perché il passaggio del ventennio fascista ha deliberatamente portato nella disciplina dei reclusori […] un soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria, che senza accorgersene sopravvive al fascismo.”
È facile scorgere in queste frasi la descrizione della situazione dei nostri istituti penitenziari. A fine del 2010, un anno dopo la condanna del nostro Paese nella sentenza Sulejmanovic contro Italia i detenuti presenti nelle nostre carceri superavano quota 67.000. Il picco massimo raggiunto nella storia repubblicana, a fronte di una capienza regolamentare, ma non effettiva, di 44.568. Un tasso di sovraffollamento superiore nella media nazionale al 150% con situazioni in alcuni istituti vicino al 200%.
Da allora, anche grazie ai numerosi richiami del Capo delle Stato, agli interventi della nostra Corte Costituzionale, e all’imporsi del dibattito sulla condizione delle carceri nel nostro Paese, molto è stato fatto. Il Parlamento e i Governi che si sono succeduti in questi anni, attraverso vari interventi sono riusciti a riportare la situazione, almeno dal punto di vista del sovraffollamento, ad una condizione di normalità. Al 31 agosto 2015 i detenuti presenti erano 52.389, i posti disponibili 49.624, l’indice di sovraffollamento ormai vicino a quota 100, 105% per l’esattezza, ma soprattutto una situazione che rispetta in ogni istituto una delle condizioni minime espresse nella giurisprudenza consolidata in materia della Corte Edu, cioè i 3mq a disposizione per ogni detenuto.
Ragionare in tali condizioni di una riforma organica dell’ordinamento penitenziario, progetto contenuto in una delega al governo che proprio in questi giorni è entrato nel vivo della discussione parlamentare, e complessivamente di una rivisitazione delle  modalità di esecuzione della pena, è oggi un compito certamente più semplice, ma di straordinaria necessità. Il superamento dell’emergenza, infatti, come più volte lo stesso Ministro Orlando ha avuto modo di dire, non significa aver risolto tutti i problemi, significa, però, avere rimosso tutte quelle macerie che avrebbero reso tale compito pressoché impossibile.
All’inizio degli anni 90 i detenuti nel nostro Paese erano circa 35.000, un dato sostanzialmente stabile per tutti gli anni 80. A partire dagli anni 90 in soli 5 anni la popolazione detenuta raggiunse  quota 50.000. Da allora, fatte salve le parentesi segnate da provvedimenti di amnistia e indulto, essa non è mai scesa sotto quella soglia, anzi a partire dai primi anni del nuovo millennio ha continuato a crescere con ritmi ancora più sostenuti, fino a giungere al picco del 2010.
Leggere i  numeri ci aiuta a capire come si è sviluppato questo processo, in che tempi, non ci dice in maniera immediata il perché e quanto questo abbia a che fare con le grandi trasformazioni che hanno segnato il mondo nell’ultimo trentennio.
È proprio a questo arco temporale, infatti, che si fa risalire il processo di globalizzazione che ha certamente comportato una ridefinizione del ruolo degli Stati sia sul fronte interno che esterno. Ad esso si sono affiancati e sovrapposti sempre più altri poteri, non solo quelli generati da accordi tra gli Stati nella classica accezione del diritto internazionale, ma poteri oltre lo Stato come scrive Cassese, poteri non pubblici, molto spesso privi di legittimità democratica, poteri che incidono fortemente nelle politiche pubbliche e che hanno contribuito insieme ad un peso sempre più preponderante dell’economia a ridurre la sfera d’intervento dello Stato, la sua capacità di essere soggetto in grado di governare l’economia. Lo Stato è insomma arretrato, la politica ha via via assunto un ruolo sempre più ancillare in rapporto a processi economici di carattere sempre più transnazionale, l’unico terreno in cui quest’ultima ha mostrato i propri muscoli è proprio quello del diritto penale, ampliato a dismisura e utilizzato come strumento per affrontare problemi di carattere sociale.
Resta da chiederci se questo processo è stato semplicemente determinato da questa grande trasformazione o se esso si è sviluppato parallelamente attraverso Policy choise. Per rispondere a questo quesito è importante rivolgere il nostro sguardo oltreoceano, luogo in cui molte delle politiche penali attuate in Europa negli anni novanta, hanno avuto origine almeno un decennio prima, per poi diffondersi come un vangelo nel resto del mondo.
Quanto emerge dalle statistiche sull’Italia non è, infatti, processo tipicamente nostrano. Esso ha interessato tutti i sistemi penitenziari dei Paesi sviluppati . Un processo che per l’appunto ha conosciuto negli Stati Uniti l’epicentro di un nuovo modo di concepire le politiche penali. Dal 1980 la popolazione detenuta di quel Paese è triplicata arrivando alle soglie del nuovo millennio all’impressionante numero di 2.100.000 detenuti. Questo è un dato che se sommato al numero di persone interessate dal sistema penale attraverso gli istituti di probation e parole, si avvicinava alla cifra dei 7 milioni di individui: si tratta di un rapporto di 1 adulto su 32, nel 1985 questo era di 1 adulto su 91. Vi è, inoltre, un altro elemento che rende ancora più drammatica tale situazione: i passaggi anche rapidi nelle prigioni di città e di Contea molto spesso per violazioni che in Europa non vengono sanzionate penalmente. Nel 2001 gli individui interessati a queste brevi esperienze erano 11 milioni. Cifre impressionanti se paragonate alle statistiche dei Paesi europei.
Non c’è evidenza scientifica che possa supportare l’idea che tale crescita della detenzione sia collegata all’aumento dei fatti di criminalità, esiste al contrario un evidenza che testimonia l’opposto, cioè che quest’ultima si è mantenuta stabile, anzi in alcuni casi e per alcune particolari offese a beni giuridici si è addirittura ridotta.
Il mutamento delle politiche penali negli Stati uniti d’America è stato un processo contestuale alle politiche di arretramento dello Stato dall’economia e della destrutturazione delle politiche di intervento sociale. Gli stessi teorici dello Stato minimo come presupposto per la crescita economica e del taglio agli interventi sociali additati come la vera causa della povertà e della propensione al crimine delle fasce “assistite”, furono i teorici del cambio delle politiche penali, del ridimensionamento delle misure alternative al carcere e dell’abbandono dell’idea del carcere come luogo di recupero da trasformare in definitiva in luogo a cui affidare il contenimento di fenomeni sociali quali droga, povertà, emarginazione sociale.
La “tolleranza zero”, la teoria del “vetro rotto” per la quale per contenere i grandi fenomeni criminali bisognasse innanzitutto rispondere colpo su colpo ai piccoli disordini quotidiani, le nuove regole contro i recidivi sintetizzate nella formula mutuata dal baseball “Three Strikes and You’re Out”, cioè il carcere come strumento di contenimento a vita del recidivo abituale. Sono queste alcune delle formule che hanno contraddistinto la politica penale americana e che hanno trasformato anche le modalità d’intervento delle forze di sicurezza in molti Stati e città di quel Paese, trasformando le modalità di approccio di quest’ultima sino a giungere in alcuni casi ad una vera e propria attività di molestia quotidiana nei confronti dei soggetti ritenuti generalmente pericolosi. Il carcere è diventato in quel Paese uno strumento di segregazione delle fasce più deboli della popolazione, e in molti casi anche uno strumento di nuova segregazione razziale.
Quelle politiche hanno fallito in quel Paese. Non vi è un dato empirico o statistico che dica il contrario, esse hanno contribuito a far esplodere la spesa penitenziaria che pur con il coinvolgimento dei privati nel business della costruzione di nuove carceri non è stata sufficiente a  sopportare un numero cosi alto di detenuti. Infine esse non hanno mantenuto neanche la principale promessa, cioè quella di generare più sicurezza tanto da spingere l’attuale Presidente, Barack Obama, a compiere pochi mesi fa un gesto storico, essere il primo Presidente degli Stati uniti a visitare un carcere e da li annunciare una riforma del sistema penale.
Queste teorie hanno avuto nel corso degli anni novanta, ma soprattutto all’inizio del millennio emuli in tutta Europa, con poche realtà che si sono sottratte a tale ideologia. Questo ha prodotto quasi ovunque un aumento del tasso di detenzione, casi di sovraffollamento carcerario come quello italiano, un sistema penale a cui sono state affidate funzioni improprie.
Nel nostro Paese nel corso degli anni duemila  gli interventi in materia penale in tale senso sono stati molteplici. Non si contano gli interventi “originalmente” etichettati come “pacchetto sicurezza”, l’introduzione di nuove figure di reato, l’aumento delle pene per molti di quelli esistenti, l’inasprimento del regime per i recidivi, le misure volte a limitare l’accesso ai benefici penitenziari, gli interventi penali in materia  di droga e immigrazione, le misure volte a rendere sempre più rigida e automatica la concreta attuazione delle misure da parte dei giudici.
Tutto ciò ha prodotto quel numero impressionante, 67.000 detenuti, il ridimensionamento delle misure alternative, crollate nel corso di quegli anni, l’esplosione dei nostri istituti di pena, un ingolfamento della nostra giustizia penale, l’aumento dei costi del sistema penitenziario e uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa.
Si è promessa, insomma,  sicurezza e si è generato ulteriore crimine. Questo bisognerebbe ricordarlo ogni giorno agli imprenditori della paura che continuano a invocare la prosecuzione di quelle fallimentari politiche. Credo che servirebbe  anche un ruolo dei media più attivo e responsabile, poiché molto spesso hanno contribuito ad ingigantire e generare quella percezione di insicurezza.
La stagione che abbiamo alle spalle, i disastri che essa ha prodotto, la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ma anche il modo in cui il nostro Paese ha saputo reagire a tale evento pur in un clima non certo facile, rappresentano oggi un patrimonio utilissimo per il nuovo corso che con fatica si sta provando a costruire. So bene che non mancano contraddizioni, che molti degli interventi di questi anni hanno avuto carattere poco organico, ma proprio la delega all’esame del parlamento e nel complesso il DDL in materia penale rappresentato un’occasione per dare una sistematica riorganizzazione a quest’opera. Gli stati generali dell’esecuzione penale convocati dal Ministro Orlando e aperti alla partecipazione di personalità esperte, operatori sociali, mondo della detenzione e dell’esecuzione penale, rappresentano in questo senso un altra straordinaria occasione per aggiungere spunti a questa riflessione.
Un ultimo pensiero. Negli ultimi trent’anni nel rapporto tra politica e giustizia, quest’ultima ha perso la sua polisemia. Ha assunto fin troppo spesso un’unica accezione, quella che richiama ad ordine e sicurezza. Ha smarrito, invece,  uno dei suoi significati principali, cioè il fatto che giustizia è prima di tutto lotta alle diseguaglianze. Ecco io credo che se la politica vuole tornare a riconquistare un ruolo forte è proprio in quest’ultimo terreno che deve ritrovare la sua rilegittimazione e credo pure che all’espansione di quest’ultimo aspetto non possa che corrispondere un ridimensionamento dell’uso improprio del diritto penale, riportandolo a ciò che deve essere per sua intima natura, cioè branca del diritto che agisce come extrema ratio.

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