Secondo stime dei sindacati e delle associazioni di volontariato sono circa 400 mila in Italia i lavoratori che subiscono il fenomeno del “caporalato”: lavoratori in nero, pagati una miseria, sfruttati. Un fenomeno che coinvolge tutta l’Italia ma che fino ad oggi non è stato affrontato in maniera decisa. Per questo è importante che oggi, finalmente, sia approdato in aula il provvedimento – approvato già dal Senato ad agosto – relativo al caporalato e che, fortemente voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, mi ha visto impegnato in prima persona in qualità di relatore.
Tante le novità: la riscrittura del reato di caporalato (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), che introduce la sanzionabilità anche del datore di lavoro; l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità; l’arresto obbligatorio in flagranza di reato; il rafforzamento dell’istituto della confisca; l’adozione di misure cautelari relative all’azienda agricola in cui è commesso il reato; l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato di caporalato; l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del Fondo antitratta; il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità; il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo. Novità volte a ridare dignità ai lavoratori e alle imprese sane, quelle che rispettano le regole. Qui di seguito il testo integrale della mia relazione letta oggi in Aula alla Camera, durante la discussione sulle linee generali del disegno di legge. In questo link, invece, i dettagli della legge.
Il provvedimento, approvato dal Senato il 1° agosto 2016 e non modificato dalle Commissioni in sede referente, mira particolarmente al contrasto del fenomeno del cosiddetto «caporalato» ovvero dell’intermediazione illegale e dello sfruttamento lavorativo in agricoltura, che coinvolge, secondo stime sindacali e delle associazioni di volontariato, circa 400.000 lavoratori in Italia, sia italiani sia stranieri, come riferito nella relazione all’Assemblea in Senato, ed è diffuso in tutte le aree del Paese e in settori dell’agricoltura molto diversi dal punto di vista della redditività. Il testo è volto a garantire una maggior efficacia all’azione di contrasto del caporalato, introducendo significative modifiche al quadro normativo penale e prevedendo Pag. 6specifiche misure di supporto dei lavoratori stagionali in agricoltura.
Le principali novità dell’intervento normativo riguardano: la riscrittura del reato di caporalato (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), che introduce la sanzionabilità anche del datore di lavoro; l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità; l’arresto obbligatorio in flagranza di reato; il rafforzamento dell’istituto della confisca; l’adozione di misure cautelari relative all’azienda agricola in cui è commesso il reato; l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato di caporalato; l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del Fondo antitratta; il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura; il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo.
Mi limiterò a illustrare i primi sette articoli che compongono il testo, in quanto si tratta delle disposizioni che attengono principalmente alla competenza della Commissione Giustizia, mentre sulle restanti disposizioni, che rientrano nella competenza della XI Commissione, si soffermerà il relatore per tale Commissione, onorevole Miccoli.
In particolare mi soffermerò sulle questioni sorte in Commissione in merito alla modifica dell’articolo 603-bis cp, rimandando alla relazione scritta per le altre parti del testo rientranti comunque nella competenza della Commissione giustizia. Preliminarmente vorrei sottolineare già in questo momento che le critiche al testo approvato dal Senato sono superabili in via interpretativa anche facendo ricorso alla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione in relazione ad elementi della fattispecie riconducibili ad altri reati, come lo sfruttamento e lo stato di bisogno.
L’articolo 1 detta una nuova formulazione dell’articolo 603-bis del codice penale relativo all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro, che attualmente punisce il cosiddetto «caporalato»
Le modifiche all’art. 603 bis c.p. mirano a superare alcune carenze presenti nella disciplina attualmente in vigore, con riferimento anche alla descrizione degli elementi costitutivi della condotta di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro.
Al riguardo pare opportuno preliminarmente rammentare che la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. rubricata “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” è stata introdotta con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148, e punisce le attività organizzate di intermediazione, attuata da chi recluta manodopera o ne organizza l’attività lavorativa, caratterizzata da sfruttamento, mediante uso di violenza, minaccia o intimidazione, con approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori. Il secondo comma dell’art. 603 bis c.p. individua le circostanze che costituiscono indici dello sfruttamento dei lavoratori.
Il nuovo articolo 603-bis prevede, infatti, al primo comma, una prima ipotesi che riscrive la condotta illecita del caporale ovvero di chi recluta manodopera per impiegarla presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno. È soppresso il riferimento allo «stato di necessità». Rispetto alla fattispecie vigente, è introdotta una fattispecie-base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi (diventati circostanze aggravanti) o intimidatori: non compare più il richiamo allo svolgimento di un’attività organizzata di intermediazione né il riferimento all’organizzazione dell’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento. Inoltre, è sanzionato il datore di lavoro che utilizza, assume o impiega manodopera reclutata anche mediante l’attività di intermediazione, sfruttando i lavoratori ed approfittando del loro stato di bisogno. Tale fattispecie-base del delitto di intermediazione illecita è punita con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato.
Il secondo comma del nuovo articolo 603-bis prevede un’aggravante caratterizzata dall’esercizio di violenza o minaccia. Le sanzioni rimangono invariate rispetto a quanto ora previsto dalla fattispecie-base: reclusione da 5 a 8 anni e multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Il terzo comma del nuovo articolo 603-bis riguarda le condizioni ritenute indice di sfruttamento dei lavoratori. Tali indici – rispetto a quanto già previsto dal secondo comma dell’articolo 603-bis – sono integrati anche dal pagamento di retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto dai contratti collettivi territoriali. Viene poi precisato che tali contratti, come quelli nazionali, sono quelli stipulati dai sindacati nazionali maggiormente rappresentativi; che le violazioni in materia di retribuzioni e quelle relative ad orario di lavoro, riposi, aspettative e ferie devono essere reiterate. Il testo attuale fa riferimento, invece, a violazioni «sistematiche». È previsto che le violazioni riguardino anche i periodi di riposo, oltre al riposo settimanale.
In relazione alla violazione delle norme sulla sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro viene soppresso il riferimento alla necessità che la violazione esponga il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale.
Con riferimento alla sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti, rispetto alla disposizione vigente, è soppresso l’avverbio «particolarmente», da cui deriva un ampliamento dei casi in cui si può realizzare tale condizione-indice. Analoga invarianza riguarda la disposizione concernente le aggravanti specifiche del reato di caporalato di cui all’attuale terzo comma, ora collocata al quarto comma del nuovo articolo 603-bis, anch’esse sanzionate con l’aumento della pena da un terzo alla metà. Peraltro, nella terza aggravante specifica è fatto riferimento ai lavoratori «sfruttati» e non più ai lavoratori «intermediati».
Questa nuova fattispecie è stata oggetto di critiche da parte di coloro che ritengono che possa essere applicata, ad esempio, anche a casi di singole e saltuarie violazioni delle norme sulla sicurezza del lavoro o degli orari di lavoro, che esulano del tutto dal fenomeno del caporalato o che comunque nel concreto non possono essere considerate tanto gravi da comportare addirittura la pena della reclusione.
In primo luogo, per quanto attiene alla nuova descrizione degli elementi oggettivi del reato, si fa presente che il provvedimento normativo in esame ha lo scopo di superare i dubbi interpretativi evidenziati in dottrina in ordine alla possibilità di estendere l’incriminazione anche al datore di lavoro per le condotte di sfruttamento dei lavoratori con approfittamento dello stato di bisogno. Si è infatti rilevato come la formulazione letterale della norma possa indurre a ritenere che la condotta tipica riguardi solo l’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro, sebbene gli indici rivelatori dello sfruttamento consistano tutti in condotte riferite al datore di lavoro, inteso come colui che impiega o utilizza i lavoratori sfruttati.
Proprio per eliminare tali criticità interpretative, la formulazione proposta dal disegno di legge distingue la condotta di chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori” (art. 603 bis, comma 1 n. 1) da quella di chi “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al n. 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno” (art. 603 bis, comma 1 n. 2). Così espressamente specificando che integra reato sia la condotta di mediazione illecita tra domanda e offerta di lavoro, sia quella di sfruttamento del lavoro stesso. L’attribuzione di rilevanza penale allo sfruttamento della manodopera anche in assenza di attività di c.d. caporalato colma una lacuna dell’attuale sistema penale, che lascia privi di tutela i lavoratori che non siano immigrati irregolari. Si ha, infatti, che l’articolo 22 comma 12-bis del Testo unico sull’immigrazione (d. lgs. n. 286 del 1998) punisce, con sanzioni penali aggravate, il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze – non importa se avviati al lavoro mediante “caporale” o meno – lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno ovvero con il permesso scaduto, revocato o annullato, quando i lavoratori siano sottoposti alle condizioni di particolare sfruttamento di cui all’attuale terzo comma dell’articolo 603-bis codice penale. E allora, il lavoratore straniero irregolare, che sia sfruttato dal datore di lavoro in modo da essere esposto a situazioni di grave pericolo, è tutelato con una previsione penale che incrimina il datore di lavoro, a prescindere dall’esistenza o meno a monte di un’illecita intermediazione, mentre il lavoratore non straniero irregolare, ma parimenti sfruttato, non trova oggi una adeguata considerazione se non per il caso in cui sia stato avviato al lavoro in forza della mediazione del c.d. caporale. Si comprende bene così come sia importante rimodellare la previsione incriminatrice dell’articolo 603-bis codice penale per rimediare ad una irragionevole limitazione del suo ambito operativo.
A coloro che criticano la nuova formulazione del reato sfugge un dato di fondamentale importanza: gli elementi che caratterizzano la condotta, in entrambi i casi, sono lo sfruttamento del lavoratore e l’approfittamento dello stato di bisogno del medesimo, quale modalità attraverso cui si realizza lo sfruttamento stesso, mentre l’uso della violenza o della minaccia, che attualmente costituisce elemento costitutivo della condotta, secondo la nuova formulazione integra mera circostanza aggravante. In tal modo si è inteso estendere la rilevanza penale anche alle condotte non violente e minacciose, oggi escluse dalla previsione normativa.
Le nozioni di sfruttamento e di stato di bisogno debbono dunque essere intese in stretta connessione tra loro, costituendo la situazione di vulnerabilità di chi versa in stato di bisogno il presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente, attraverso la quale realizzare lo sfruttamento.
Il concetto di sfruttamento, pertanto, deve essere ricondotto a qualsiasi comportamento, anche se posto in essere senza violenza o minaccia, idoneo ad inibire e limitare la libertà di autodeterminazione della vittima mediante l’approfittamento dello stato di bisogno in cui versa, senza tuttavia che si renda necessario realizzare quello stato di totale, completa e continuativa soggezione che caratterizza invece il delitto di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p.
Al riguardo la Corte di cassazione (C.C. Sez. 5, sent. n. 14591 del 4.4.2014) ha avuto modo di chiarire che il delitto di cui all’art. 603 bis c.p. “è finalizzato a sanzionare quei comportamenti che non si risolvono nella mera violazione delle regole poste dal d.lgs. 276/2003, senza peraltro raggiungere le vette dello sfruttamento estremo, di cui alla fattispecie prefigurata dall’art. 600 c.p., come confermato dalla clausola di sussidiarietà con la quale si apre la previsione”.
Si consideri poi che la nozione di sfruttamento implica concettualmente una compressione, meglio: una violazione, temporalmente apprezzabile dei beni interessi tutelati. Non si sfrutta il lavoratore con un unico singolo atto, ma attraverso condotte che ne conculcano per una durata significativa i diritti fondamentali che vengono in gioco nel momento in cui viene prestata l’attività lavorativa.
Non si è sfruttati soltanto un giorno, per dire più chiaramente: occorre che la condotta datoriale si sviluppi nel tempo, che integri, appunto, una situazione di fatto duratura. Per questa ragione non v’è necessità di specificare, nella parte dedicata agli indici di sfruttamento, che la reiterata violazione, la reiterata corresponsione di retribuzione sproporzionata non possano consistere nella commissione di quei fatti anche soltanto per due volte. Occorre leggere il “reiterate” unitamente all’elemento oggettivo centrale dello sfruttamento che, per sua struttura di disvalore, non può consumarsi con singoli occasionali atti.
Specularmente alla nozione di sfruttamento, quella di stato di bisogno non si identifica, secondo l’interpretazione offerta anche dalla giurisprudenza in particolare con riferimento alla circostanza aggravante del delitto di usura, con il bisogno di lavorare per vivere, ma presuppone “uno stato di necessità tendenzialmente irreversibile, che, pur non annientando in modo assoluto qualunque libertà di scelta, comporta un impellente assillo, tale da compromettere fortemente la libertà contrattuale” della persona.
Un altro punto da chiarire assolutamente in quanto ha suscitato una serie di equivoci, dovuti anche alla mancata conoscenza della legislazione vigente gli indici di sfruttamento, già previsti dal vigente articolo 603-bis.
Gli indici sono ‘sintomi’, indizi che il giudice dovrà valutare se corroborati dagli elementi di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno e non condotte immediatamente delittuose.
Si tratta della stessa situazione che accade oggi quando la guardia di finanza entra in un’azienda per violazioni tributarie e trova i libri contabili non in ordine: quello è un indizio (indice), che non integra di per sé il reato di frode fiscale. Le condizioni richiamate dall’articolo, in altre parole, costituiscono mero indicatore dell’esistenza dei fatti oggetto di incriminazione, di cui il giudice deve tenere conto nell’accertamento della verità, ma certamente non si identificano con gli elementi costitutivi del reato. Esemplificando, la violazione delle disposizioni in tema di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro non è di per sé capace di integrare la condotta del delitto, occorrendo comunque che il lavoratore risulti sfruttato e che del suo stato di bisogno il datore di lavoro abbia profittato.
Il legislatore, con l’elencazione degli indici di sfruttamento, semplicemente agevola i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l’indagine e l’accertamento in quei settori (retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative, ecc.) che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione di condotte di sfruttamento e di approfittamento.
A tal proposito, si è detto molto opportunamente in dottrina che gli indici svolgono una funzione di “orientamento probatorio” per il giudice: ed è per tale ragione che non ha fondamento il rilievo critico circa l’asserito difetto di determinatezza della norma che li descrive o circa la loro presunta incompletezza.
In particolare, il testo del disegno di legge ha rivisitato la disposizione relativa alla sussistenza di violazioni in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, espungendo l’inciso finale “tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale”. È bene chiarire subito che l’eliminazione di tale inciso non indebolisce la forza selettiva della norma incriminatrice, ossia la sua capacità di qualificare soltanto le condotte realmente meritevoli di punizione.
Se, infatti, si tiene presente che le norme sugli indici di sfruttamento non descrivono il fatto tipico e non riguardano dunque le condotte costitutive del delitto, si comprende pienamente che non c’è alcun pericolo che la modifica possa portare ad un eccesso di penalizzazione, colpendo anche comportamenti dei datori di lavoro che non si segnalino per un particolare disvalore.
In questo senso, anzi, l’eliminazione del riferimento al pericolo per salute, sicurezza ed incolumità personale giova a evitare il rischio di un fraintendimento interpretativo: se si carica la disposizione di orientamento probatorio di un elemento che autonomamente denota un significativo disvalore, si può ingenerare l’equivoco che essa contenga almeno una parte della condotta costitutiva del reato, data dallo sfruttamento della manodopera. Si evita, insomma, il rischio che si possa ritenere la sussistenza dello sfruttamento per il solo fatto che sia stata violata una disposizione in materia di sicurezza o igiene sul lavoro, quasi che la contravvenzione ad una delle tante disposizioni volte appunto a prevenire rischi per la sicurezza dei lavoratori possa integrare la condotta, di ben altro disvalore penale, dello sfruttamento di manodopera.
Per quanto attiene alle altre disposizioni del testo rientranti nella competenza della Commissione giustizia, rimandando alla relazione scritta che chiedo di depositare, in questa sede mi limito a rilevare che l’attenuante della collaborazione (pena diminuita fino a due terzi) utilizza il modello già sperimentato nella normativa anticorruzione e in quella sugli eco-reati. I reati di caporalato, corruzione e disastro/inquinamento ambientale sono infatti fenomeni accomunati, sotto il profilo delle indagini e del contrasto, da una fitta rete omertosa che ne rende difficile l’emersione e la scoperta. L’attenuante è strumento di rottura dell’omertà diretto a incoraggiare chi aiuta a scoprire certe realtà.
Quanto al controllo giudiziale, è ripreso ed è in sintonia con quanto previsto in uno dei provvedimenti già approvati, riguardanti l’Anac, e nella riforma del codice antimafia (già approvata dalla Camera e ora al Senato), relativamente alle aziende confiscate alla criminalità organizzata: risponde al principio che l’intervento dello Stato non può e non deve coincidere con la chiusura dell’azienda. Il ripristino della legalità, anzi, deve accompagnarsi al rilancio dell’azienda e al mantenimento dei posti di lavoro.
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