Oggi pomeriggio nell’ex Monastero dei Benedettini, sono stato ospite della rassegna cinematografica Cinema Segre(ga)to, uno spazio di riflessione sui problemi della detenzione organizzato dall’Università, dal professore Alessandro De Filippo e dall’avvocato Vito Pirrone. Gli organizzatori, che ho ringraziato di persona per la realizzazione di questo ciclo d’incontri, stanno svolgendo un’attività interessante e meritoria dando la possibilità alla città, attraverso il cinema, di “accendere i riflettori e riflessioni” su temi molto importanti come i diritti umani, quelli dei detenuti e tutte le altre questioni che sono state trattate in queste serate.
Oggi pomeriggio, attraverso la visone del film di Vincent Gallo, Buffalo 66, abbiamo avuto modo di discutere di quello che succede ai detenuti dopo l’uscita dal carcere, un tema molto interessante perché se – come giustamente dicono gli organizzatori – “Il carcere è un argomento che la società tende a rimuovere”, ricordandosene solo in casi estremi e su temi su cui ormai le posizioni sono sclerotizzate e stereotipate, come il sovraffollamento o l’indulto; ancora più ignorato dall’opinione pubblica e dalla politica, è il problema di cosa accade ai “cattivi” una volta “pagato il loro debito con la giustizia”.
La filmografia su cosa accade dopo il carcere non è molto vasta. Perché la società tende a rimuovere questo problema, a non considerarlo. Esso è delegato al terzo settore, che lo fa istituzionalmente e agli enti locali che lo affrontano nella loro connotazione sociale.
Quello descritto nel film di Vincent Gallo mi sembra un caso estremo, originale ma credo sia un’occasione per interrogarsi su un tema di fondo che è la funzione della pena.
Mi piace molto la definizione che è stata data nel programma: “dentro il carcere, fuori dal mondo”.
Il carcere inteso come luogo fuori dal mondo, come non luogo è diventato il contenitore del disagio sociale: dei temi irrisolti e per ciò rimossi dalla società. La popolazione carceraria è composta per lo più da stranieri, tossicodipendenti, immigrati, senza fissa dimora… una serie di individui a cui l’unica cosa di cui ci si preoccupa la società è quella attaccargli sopra una etichetta che ne segna irrimediabilmente il destino.
Quello della funzione della pena è un tema su cui il dibattito ed il confronto hanno radici antiche. La risposta, come sempre semplice nel linguaggio e precisa nelle indicazioni, secondo me ci viene dai padri costituenti che all’articolo 27 scrivono “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Il Governo ha già iniziato ad operare perché il carcere torni ad essere una extrema ratio.
E’ statisticamente comprovato che gli strumenti alternativi alla detenzione, come la partecipazione dei detenuti a progetti socialmente utili riduce i casi di recidiva.
E’ dimostrato quindi che investire sulla fiducia conviene di più che investire sulla minaccia: porta ad un risultato più umano per il condannato e migliore per la collettività.
L’esperienza della pena alternativa consente al condannato di potere configurare la propria privazione della libertà personale, la detenzione, come momento di rivalutazione della propria condotta di vita e, al tempo stesso, come momento di recupero di potenzialità che gli possano consentire, una volta concluso il periodo di privazione della libertà, un adeguato reinserimento nella società, con maggiori capacità professionali e lavorative e opportunità.
Il recupero oltre alla valenza riparatoria della sanzione penale ne ha anche una pedagogica, come orientamento ai valori della solidarietà e della socializzazione.
Il Governo è fortemente impegnato nel porre in essere misure che possano inserirsi nella direzione di rendere questo Paese, sotto il profilo dell’applicazione della pena, in linea con i nostri principi costituzionali e con le prospettive di uno Stato che voglia essere davvero avanzato sotto il profilo del grado di espressione del livello di civiltà raggiunta.
Per ottenere questi risultati ambiziosi che il Governo si è posto, affinché possa realizzarsi un moderno sistema di Giustizia occorre che si lavori molto, sul piano culturale così come su quello normativo.
Spero vivamente che si prosegua in questa direzione. In ogni caso, il mio impegno personale in tal senso non verrà mai meno.
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