Immaginate una montagna di occhiali, di ogni foggia e colore. Immaginate antiche valige di cartone ammonticchiate disordinatamente, rotte come gli occhiali accatastati, e immaginate di scorgere sopra ogni valigia un nome e un cognome. Dietro a quegli occhiali, a quelle valige, c’erano uomini e donne, bambini e anziani. C’erano persone cui è stato strappato tutto: la vita, la dignità di esseri umani, gli abbracci della propria famiglia. E’ quello che mi ha colpito di più durante la mia visita ad Auschwitz, Polonia. Nei giorni scorsi abbiamo avuto il privilegio di visitare il campo di sterminio in compagnia di alcuni testimoni della Shoah : Nedo Fiano, Piero Terracina, Sami Modiani, Andra e Tatiana Bucci.
Il racconto dell’atroce esperienza vissuta da queste donne e da questi uomini, del buco nero nel quale la follia nazista li ha risucchiati, rimarrà impressa per sempre nella mia memoria. E i ricordi più intensi non parlavano tanto di fame, di freddo, di prigionia, di sporcizia. Parlavano di distacco, di senso di solitudine, della sofferenza atroce di questi bambini allontanati a forza dalle braccia dei propri cari. Questo era il benvenuto ad Auschwitz. Tutti i superstiti si sono soffermati lungamente sull’inizio del calvario, sul momento della separazione dalla propria famiglia.
L’uno raccontando delle botte subite dal padre reo di non volere consegnare la figlia alle SS, l’altra ricordando la nonna inginocchiata dinanzi all’ufficiale tedesco pregandolo di graziare le proprie nipotine di quattro e sei anni (le sorelline Bucci, per l’appunto).
E Nedo Fiano che ci ha ripetuto in modo ossessivo e struggente l’urlo della madre all’arrivo al campo di Birkenau: “Nedo, Nedo, abbracciami non ci vedremo mai più”.
Poi ci hanno preso per mano e condotti nei meandri della follia umana, mostrandoci la “fabbrica della morte”, il girone infernale dantesco dal quale miracolosamente sono riusciti a tornare.
Ho scattato maldestramente qualche foto con il mio cellulare, che vi consegno.
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