Essere giovani nel cuore

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Il discorso di Bersani all’assemblea Nazionale

Care democratiche e cari democratici, cari amici e cari compagni,

prima di ogni altra cosa voglio che da questa nostra Assemblea venga un saluto affettuoso al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e un ringraziamento per la personalità, la forza e l’equilibrio con cui sta esercitando il Suo altissimo ruolo di garanzia.

Un saluto voglio rivolgere anche a nome vostro a Romano Prodi.

Lo sentiamo qui con noi nelle radici profonde della nostra grande avventura e conosciamo l’affetto e l’attenzione con cui segue le vicende del nostro e del suo Partito.

Un ringraziamento anche a tutti quelli che ci hanno portato fin qui in una vicenda complessa, difficile, ma esaltante.

In particolare un ringraziamento a Dario Franceschini che mi ha preceduto in questo ruolo e che si è confrontato lealmente con me e con Ignazio Marino in nome delle migliori prospettive del Partito.

Nei temi che ricorrono in questa relazione c’è ovviamente molto di mio, ma anche non poco di loro perché mentre ci confrontavamo ho cercato sempre di ascoltarli.

Infine un ringraziamento e un saluto cordiale ai Rappresentanti delle quaranta Ambasciate che sono presenti oggi e che testimoniano con la loro presenza il rilievo del nostro appuntamento.

Ho detto più volte che non credo al Partito di un uomo solo ma ad un collettivo di protagonisti.

So bene che la formazione di un collettivo deve avere forme nuove e contemporanee; ma rinunciarvi, per un partito popolare, non sarebbe andare avanti, sarebbe regredire.

Dunque mi rivolgo a voi non come ci si rivolge ad una folla ma come ci si rivolge al largo gruppo dirigente del nostro Partito corresponsabile con me di questa nostra straordinaria avventura.

Vi propongo subito e con chiarezza i nostri essenziali compiti: costruire il Partito, preparare l’alternativa.
Sono compiti che richiedono un lavoro importante per durata e per profondità.

Inutile cercare scorciatoie o immaginare strade senza inciampi.

Cerchiamo piuttosto di darci solidità, di darci una tranquilla certezza di noi stessi e obiettivi chiari.

La forza c’è e la si è vista in questi mesi.

La sera delle primarie ho detto che dentro la vittoria di tutti c’era anche la mia vittoria.

È stata davvero una vittoria di tutti. Più di 400.000 (466.573 pari al 56% aventi diritto) iscritti hanno partecipato ai congressi di circolo, più di 3 milioni (3.102.709) di cittadini hanno votato alle primarie.

Una spinta enorme, un incoraggiamento enorme!

Quante cose possiamo capire meglio dopo questa vicenda!

Cose che riguardano noi e cose che riguardano l’Italia.

Cose che riguardano noi innanzitutto.

Ad esempio la evidente sintonia fra iscritti e cittadini elettori ci dice, al di là della contingenza, una cosa molto profonda, che purtroppo abbiamo avuto in dubbio fin qui e che ora possiamo fissare con certezza.

È possibile immaginare un grande Partito in cui organizzazione ed apertura alla società si tengono, non sono in tensione od in alterità ma possono rafforzarsi reciprocamente.

È un assunto determinante per indicarci la strada.

Ma più ancora da questo nostro percorso è venuta una parola nuova all’Italia, una parola che non dobbiamo lasciare spegnere, una parola sulla questione democratica aperta nel Paese, sulle possibili prospettive della nostra democrazia.

Ancor più dopo queste settimane, noi siamo orgogliosi di sentirci costruttori di un Partito.

Orgogliosi, perché costruendo un Partito realizziamo la nostra Costituzione che parla di Partiti e non di popoli.

Costruendo un Partito in un modo nuovo e con larghi meccanismi di consapevole partecipazione noi diciamo con i fatti che esiste un’altra modernità alternativa alla deformazione populista e plebiscitaria del nostro quadro politico e costituzionale.

Una novità che può venire dall’innovazione dei partiti secondo regole che siamo pronti a discutere in applicazione dell’articolo 49 della Costituzione.

Una novità che può venire dal rafforzamento e dalla riforma del sistema parlamentare.

Una novità che può venire da una legge elettorale che riconsegni ai cittadini la scelta dei parlamentari.

Un mese fa, alla nostra Convenzione ho descritto come in molti Paesi del mondo emerga una caduta di efficacia e quindi di credibilità della democrazia rappresentativa per la natura dei problemi e dei poteri che si muovono oggi nel mondo, problemi e poteri difficili da afferrare e da riportare al controllo dei cittadini rappresentati.

Ho cercato di dire come nella particolare situazione italiana tutto questo possa scivolare in deformazioni e semplificazioni regressive della rappresentanza col rischio di rimpicciolire il nostro Paese nel contesto delle grandi democrazie mondiali, ne impedirebbe la modernizzazione, lo lascerebbe ostaggio delle sue arretratezze.

Ho anche detto, e lo ripeto qui, che questo rischio non può essere affrontato con una impostazione difensiva o nobilmente conservatrice.

Ci chiamiamo Democratici perché poniamo al Paese il problema di una democrazia efficiente. Ci chiamiamo Riformisti perché vogliamo le riforme.

Noi rifiutiamo in radice l’idea che il consenso venga prima delle regole, che la partecipazione democratica significhi eleggere un capo, che la società civile sia ridotta a tifoseria.

Riconosciamo, nel contesto delle grandi democrazie del mondo, la pari dignità di modelli parlamentari e di modelli presidenziali bilanciati.

Ma rivendichiamo per il nostro Paese in ragione della nostra grande tradizione costituzionale e in ragione delle concrete nostre condizioni sociali, culturali e storiche, un modello parlamentare rinnovato, rafforzato e reso efficiente.

E quindi avanziamo una nostra idea di riforma. Un idea di riforma che non affidiamo al cosiddetto dialogo, parola malata ed ambigua, ma al confronto trasparente nelle sedi proprie e cioè nel Parlamento.

Proponiamo di partire da quattro punti.

Superamento del bicameralismo perfetto, Senato federale, riduzione del numero dei parlamentari, rafforzamento delle funzioni reciproche di Governo e Parlamento.

Attuazione dell’articolo 49 della Costituzione con una coerente e moderna legislazione sui partiti.

Nuova legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i Parlamentari, attraverso un confronto con le forze politiche cominciando da quelle dell’opposizione senza escludere una legge di iniziativa popolare.

Nuove norme sui costi della politica fissando parametri che ci mettano stabilmente e chiaramente nella media comparata dei principali Paesi europei.

Queste sono le nostre priorità sul fronte istituzionale e costituzionale. Altre ne segnalerò più avanti sul fronte economico e sociale.

Non pretendiamo di imporre queste priorità ma non accetteremmo che l’agenda delle riforme ci fosse semplicemente dettata da altri.

Voglio dire una parola chiara anche sul tema della giustizia, sul quale insiste una confusa pressione da parte di Governo e maggioranza, paradossalmente in assenza di proposte leggibili.

Se parliamo del servizio-giustizia noi non pensiamo che le cose vadano bene così.

Al netto delle immancabili eccezioni, la giustizia è un servizio inefficiente e negato a gran parte dei cittadini.

Nella crisi economica attuale, ad esempio, le recenti norme sulla giustizia civile appaiono palliativi di fronte ad un sistema in cui le relazioni economiche non hanno un vero presidio e chi esige un proprio diritto è spesso nell’abbandono e non raramente nella disperazione.

Vogliamo discutere, nella crisi, di norme urgenti e radicali sulla giustizia civile; vogliamo parlare di ragionevole durata del processo? Vogliamo partire da qui e affrontare, a partire da qui i problemi che hanno rilievo anche nella dimensione costituzionale?

Siamo d’accordo.

Ma non possiamo non vedere l’enorme difficoltà di un confronto totalmente e unicamente centrato sull’equilibrio dei poteri e soprattutto invaso dall’insuperabile interferenza di questioni che si riferiscono alle situazioni personali del Presidente del Consiglio, e segnato dall’aggressività e dalla volontà di rivincita scagliate contro il sistema giudiziario e la Magistratura.

Sono sentimenti ed intenzioni che oggettivamente inquinano la discussione.

È in grado la maggioranza di liberare il tavolo da queste ipoteche? Questa è la domanda, ed è una domanda ineludibile. Obiettivamente ineludibile.

In questa lunga campagna congressuale ho cercato di mettere al centro un tema che ripropongo qui.

Fra questione democratica e questione sociale c’è un nesso inscindibile.

Dobbiamo sapere che nella divisione e nella incomunicabilità di queste due questioni c’è la nostra sconfitta.

Nella loro consapevole connessione c’è la prospettiva vincente dell’alternativa. Parliamone al concreto.

Le condizioni reali dell’economia e della società non hanno un reale rilievo nella discussione pubblica e nel confronto politico.

Ciò avviene perché il sistema è deformato non solo dal lato dell’informazione e della comunicazione ma nei suoi aspetti strutturali cioè nella formazione delle decisioni.

La narrazione fatta di cieli azzurri e di nuvole passeggere che ci ha costretti all’immobilità e all’impotenza davanti alla realtà dei problemi non avrebbe potuto aver luogo se la formazione delle decisioni e delle leggi non fosse stata imbrigliata da un meccanismo che consente la nomina dei Parlamentari, che consente la valanga di voti di fiducia e di decreti omnibus, e che induce alla passività non solo la società politica ma, inevitabilmente, anche quella civile.

Come nel gioco delle tre carte il luogo e il tempo per discutere i problemi reali sono sempre altri.

Il vuoto viene coperto da divagazioni addirittura paradossali su cui si adagia il conformismo.

Abbiamo discusso per alcuni giorni di posto fisso mentre decine di migliaia di precari il posto fisso lo stavano trovando a casa loro!

Tutto questo alza un muro pericoloso fra dimensione sociale e realtà istituzionale e politica.

Riscopriamo che senza dialettica politica e parlamentare non c’è dialettica sociale, non c’è la possibilità di inquadrare una gerarchia di problemi davvero riconoscibile dai cittadini.

Parliamo dunque con linguaggio di verità di questa crisi.

La crisi non è psicologica, non è una nuvola passeggera, non l’abbiamo alle spalle: nessuno di noi vuol fare il pessimista o il catastrofista.

Pretendiamo semplicemente che si riconosca che abbiamo un problema serio, un problema che non si risolve da sé, un problema che altri non risolveranno per noi.

Pretendiamo, dopo diciassette mesi, che il Governo si rivolga al Parlamento e al Paese con una analisi realistica e con proposte e intenzioni che mostrino finalmente la consapevolezza della situazione internazionale e nazionale.
La situazione internazionale, innanzitutto.

Abbiamo alle spalle la crisi finanziaria? A guardare profitti e bonus delle grandi banche del mondo si direbbe di sì.

Ma ciò deriva da fiumi gratuiti di denaro che arrivano dalle Banche Centrali e che vanno su azioni e titoli piuttosto che sull’economia reale mentre i default delle famiglie possono ancora crescere, mentre le difficoltà delle imprese aumentano, mentre il livello di capitalizzazione della Banche resta inadeguato.

Ciò sospinge a una tendenza di fondo.

Le banche non si prendono rischi nuovi verso l’economia reale: intanto, niente di veramente sostanziale si è mosso per la riforma dei mercati finanziari e c’è un rischio reale di tornare a poco a poco dove si era prima.

Quanto all’economia reale, la domanda mondiale è bassa, i paesi esportatori in particolare soffrono, c’è una sovraccapacità produttiva difficile da assorbire.

Il sostegno pubblico alla domanda che avviene nei più grandi Paesi del mondo è una ricetta necessaria che tuttavia mette sul futuro non solo l’ipoteca del debito ma anche il rischio di riproporre gli stessi modelli squilibrati nelle relazioni economiche mondiali che sono stati la vera origine della crisi.

Solo negli Stati Uniti e nel Giappone si affaccia l’idea peraltro ancora incerta di correzioni del modello di crescita.

Altrove non se ne vede traccia.

Si tratta di correzioni che dovrebbero essere il vero nuovo orizzonte delle politiche progressiste nel mondo sul quale avviare un confronto internazionale che ancora non si vede.

Per come si muovono le cose nella dimensione mondiale non possiamo pensare che gli altri risolvano i nostri problemi. Noi abbiamo alle spalle lunghi anni di minor crescita a causa di condizioni che, se non corretta, agiranno ancora facendoci uscire più lentamente di altri dalla crisi.

Tutto ci dice che nell’inerzia tornare per noi alle condizioni del 2007 sarà una strada lunga.

Bisogna che non sia troppo lunga.

Se permettiamo cioè che l’impatto della recessione sia troppo duro sull’apparato produttivo ne avremo danni difficili da rimediare.

Se lasciamo che la recessione indebolisca ancora la nostra già incerta attitudine ad un salto tecnologico del sistema produttivo ne avremo danni difficili da rimediare.

La sostanza è che rischiamo un ridimensionamento strutturale delle nostre attività e quindi difficoltà serie nel dare prospettive di lavoro alle nuove generazioni.

Per questo invochiamo una risposta nazionale ad uno sforzo che solleciti nel Paese il contributo anche di chi non sta vivendo la crisi, per fronteggiare con più determinazione i rischi che si affacciano.

Non ci si presenti per favore, con una finanziaria fatta di segnali irrilevanti.

Ci servono misure vere.

È ora di recuperare il tempo perduto e di affrontare una nuova agenda sia dal lato dell’emergenza, sia dal lato delle riforme.

Parliamo dunque di emergenza.

Molte piccole e medie imprese non hanno fiato sufficiente per una crisi lunga. Il loro fiato si chiama liquidità.
La liquidità è fatta di pagamenti, di pagamenti della Pubblica Amministrazione, di carico fiscale, di accesso al credito e di costo del credito.

Si devono scegliere dentro a questo mix soluzioni più concrete e forti di quelle viste fin qui. Non vado nei particolari. Siamo pronti a dire la nostra.

Anche la capitalizzazione delle imprese può servire a dar fiato purché non sia affidata a meccanismi barocchi ed estranei al senso comune della nostra imprenditoria.

Ancora sull’emergenza. Gli ammortizzatori. Non è vero che tutto funziona. C’è un problema di massimali, c’è un problema di prolungamento della cassa ordinaria, c’è un problema di erogazione della cassa in deroga, c’è una larga scopertura del precariato.

Molte famiglie di lavoratori sono in gravi difficoltà, alcune sono nel dramma.

E ancora: per rianimare i consumi bisogna cominciare a portare risorse ai reddito medio-bassi impoveriti (salari, stipendi, pensioni) e a chi è sotto la soglia di povertà.

Per stimolare minimamente l’economia ci vuole un grande piano di immediate piccole opere da affidare ai Comuni e un potenziamento degli interventi per il risparmio e l’efficienza energetica.

Tutto questo costa. Costa peraltro poco di più di quella sciagurata manovra di inizio legislatura che tra abolizione totale dell’Ici, cancellazione della tracciabilità nei pagamenti, straordinari e Alitalia ci fece sprecare più di dieci miliardi mentre la crisi era già lì. Sappiamo bene che per affrontare sia l’emergenza che le riforme bisogna garantire l’equilibrio dei conti.

Lo si può ottenere solo in tre modi:

Abbandonare i tagli lineari e mettere le mani nei meccanismi che generano la spesa pubblica a cominciare dai grandi comparti e dall’acquisto di beni e servizi imponendo a tutti i livelli, centrali, regionali e locali e a tutti i centri di spesa le migliori pratiche e riorganizzando su questa base la Pubblica Amministrazione;

Incrementando la fedeltà fiscale non solo con tecniche deterrenti ma con meccanismi che introducano in modo fisiologico una riduzione dell’evasione e del nero e spostando altresì il carico fiscale dal lavoro alla rendita, a cominciare da quella finanziaria;

Migliorare i tassi di crescita con riforme capaci di attivare le forze di mercato.

Sono operazioni a volte scomode, davanti alle quali è facile che tremi la mano.

Ma non si può pretendere che le rose del Governo siano senza spine.

Davanti ad un’assunzione di responsabilità esplicita, concreta e visibile da parte del Governo noi non ci sottrarremmo a qualcuna di quelle spine.

Ma se continuiamo a sentirci dire che il problema non c’è o che si può aggiustare con palliativi per noi diventa davvero difficile discutere.

Uno strumento formidabile per fronteggiare la crisi è il sistema delle autonomie, nel momento in cui più forte potrebbe essere il suo coinvolgimento sia sul versante degli investimenti, sia sul versante sociale – a partire dalla risposta alle nuove povertà e a questioni acute come quelle dell’immigrazione – noi assistiamo ad un tradimento vero e proprio dei Comuni che non sanno né come fare i bilanci né come muovere le risorse che hanno.

Propongo dunque come prima iniziativa di mobilitazione del Partito una assemblea di mille Amministratori del PD aperta ad Amministratori di ogni orientamento per denunciare il federalismo delle chiacchiere ed affermare quello dei fatti : non si pensi, a cominciare dalla Lega, di poter raccontare qualsiasi favola con noi che stiamo zitti!

Parliamo adesso di riforme: preparare l’alternativa vuol dire riprendere l’orizzonte di riforme economiche e sociali e proporre una nostra agenda.

Il record di dieci anni di governo di cui Berlusconi si vanta ci ha dato propaganda prossima a mille e riforme prossime a zero.

Come nell’emergenza, così nelle riforme, noi partiamo dal lavoro.

Il lavoro è il problema numero 1 del Paese, il lavoro deve essere il primo impegno del nostro Partito.

Lavoro e impresa. Quando dico lavoro intendo dire lavoro e impresa a cominciare dalla piccola e media impresa.

Chiarisco subito che noi avremo un nostro punto di vista e una nostra posizione autonoma in questo campo, così come su tutto l’arco delle riforme, come si conviene ad un grande Partito popolare che riconosce e difende l’autonomia delle forze sociali, sindacali e di impresa e sollecita un confronto con loro a partire però da una sua idea di società e senza essere a rimorchio di nessuno.

Al concreto noi mettiamo al centro una politica dei redditi contro l’impoverimento dei redditi da lavoro compresa l’esigenza di garantire soglie minime di reddito, di salario e di pensione; l’allestimento di un percorso largamente unificato e progressivamente garantito per l’ingresso al lavoro dei giovani; la necessità di uno sguardo di prospettiva sull’impianto del sistema pensionistico alla luce dei suoi effetti sulle nuove generazioni; una rivisitazione della legislazione sull’immigrazione e sulla cittadinanza.

Poniamo altresì il tema di una ripersa delle politiche industriali e di ricerca che per noi si riferiscono agli orizzonti indicati dal progetto Industria 2015 e un ri-orientamento di investimenti e consumi nella chiave dell’economia verde.

L’economia verde dovrà essere da qui in poi un motore della crescita, nel campo industriale, dell’edilizia, dei trasporti e delle energie rinnovabili.

Abbiamo proposte precise da discutere e chiediamo che non ci si distragga col tentativo illusorio di afferrare qui e ora in Italia un nucleare di terza generazione.

Vogliamo essere il Partito dell’ammodernamento del Welfare, capace di presidiare con una vera cultura di governo – che comprende anche per intenderci la sostenibilità finanziaria – quei beni che non intendiamo affidare al mercato e per i quali pretendiamo un approccio universalistico: salute, istruzione, sicurezza.

La nostra valutazione è questa. In questi sistemi assistiamo prevalentemente ad una riduzione e a un degrado dell’offerta, realizzati con violenti tagli lineari e con la predisposizione di battage ideologici, dal grembiule, alle ronde, ai fannulloni e con un approccio ai temi della Pubblica Amministrazione non in chiave di riorganizzazione ma in chiave di richiamo all’ordine.

I risultati li vediamo nell’impoverimento dell’organizzazione scolastica e formativa che si scarica su studenti, famiglie, insegnanti e nella condizione di disagio estremo in cui lavorano gli operatori della sicurezza.

Decreti e voti di fiducia in tutte queste materie non hanno portato soluzioni, hanno portato problemi.

Chiediamo che sia possibile finalmente una discussione nel merito, a cominciare ad esempio dalle nuove norme sull’Università, nelle quali riconosciamo alcune delle nostre indicazioni e che siamo quindi interessati a discutere, con il solo vincolo di una riconsiderazione dei tagli indiscriminati che si sono abbattuti su Università e Ricerca.

Il Partito che presidia e ammoderna le grandi tutele sociali e i meccanismi di inclusione e di integrazione è anche il Partito che combatte per l’apertura e la regolazione dei mercati, che si oppone a meccanismi monopolistici, corporativi e di posizione dominante e a meccanismi confusi che agganciano il pubblico agli interessi del privato così come avverrebbe con le norme che si affacciano sui servizi pubblici locali.

È il Partito, come ho detto più volte, che sta con chi bussa alla porta e non con chi la tiene chiusa e che pretende che il cittadino consumatore e utente sia rispettato, che considera l’equità del carico fiscale un obiettivo di civiltà e ritiene i condoni una vergogna e una iattura.

Un programma di apertura e civilizzazione del mercato ha davanti a sé in Italia un terreno vastissimo di iniziativa ed alcune priorità: quella che riguarda ad esempio la possibile riproduzione di posizioni dominanti nei diversi ambiti in cui si articola oggi l’informazione e la comunicazione.

È un Partito il nostro, che sospinge l’evoluzione dei diritti civili e che ha nei suoi cromosomi gli articoli 2 e 3 della Costituzione che non ammettono distinzione alcuna nei diritti inviolabili delle persone; un Partito che non accetta una posizione discriminata delle donne nell’economia, nella società, nelle Istituzioni.

A questo proposito una forza politica che compone un’Assemblea come questa e con questa presenza femminile non può accettare che l’Italia sia al quattordicesimo posto in Europa e al cinquantunesimo nel modo per rappresentanza delle donne nelle Assemblee elettive, per tacere della loro presenza (o assenza) nei Consigli di Amministrazione.

Io credo che qui, nei centri decisionali, ci sia il cuore della discriminazione che deve essere affrontata con interventi normativi su un sistema transitorio di quote che il Partito Democratico deve avanzare sollecitando un movimento di opinione.

Infine, ma non per ultimo, noi vogliamo essere il Partito dell’unità del Paese nel suo assetto autonomistico e federale e poniamo la questione drammatica e acuta del Mezzogiorno nella sua sintesi fra situazione economica e occupazionale, rinnovamento politico, civile, amministrativo e affermazione della legalità.

Non possiamo certo ridurre questo tema ad una discussione pro o contro la Banca del Sud.

Ospiteremo in un luogo aperto di Partito intellettuali, coscienze critiche e nuove energie per proporre un progetto nuovo di legalità e di crescita che attacchi la pletora dell’intermediazione polit.ca e amministrativa, che valorizzi le reciprocità fra nord e sud, che sia palestra vera per la formazione di nuove classi dirigenti.

Al di là di questi essenziali e doverosi cenni non voglio qui fare un discorso programmatico.

Voglio solo fissare un punto: non potremo costruire davvero una alternativa vincente senza suscitare la fiducia nella possibilità di una stagione di riforme e di avanzamenti civili e sociali. Né questa dimensione riformista può affermarsi, tanto meno nei luoghi più dinamici della nostra società, senza che il Paese si percepisca in una dimensione meno ripiegata e più vasta, e cioè innanzitutto nella dimensione europea.

Questo mi pare essere il più profondo lascito e la più sicura indicazione che vengono dall’esperienza dell’Ulivo e della leadership di Romano Prodi.

Essere in Europa: sia nel porci all’altezza delle migliori esperienze europee senza farcene sopravanzare come sta largamente avvenendo, sia nell’affermare il nostro Paese come soggetto trainante dell’integrazione; un ruolo questo che con i Governi della destra ci è totalmente sfuggito di mano e che dobbiamo assolutamente riprendere.

Il 1° dicembre entrerà in vigore il Trattato di Lisbona. Le cose cambiano. Siamo contenti e orgogliosi che si discuta, pur in un percorso incerto e complesso, della candidatura in un ruolo di altissima responsabilità di una personalità italiana e cioè di Massimo D’Alema.

È una novità importante il fatto che questa candidatura sia emersa non nella classica forma intergovernativa ma come indicazione politica delle forze progressiste europee e che questa proposta abbia avuto un aperto apprezzamento dalla quasi totalità delle forze politiche italiane.

Vogliamo affrontare le novità che vengono dal nuovo Trattato nel solco dell’indicazione del Presidente Giorgio Napolitano, che ha detto così: ‘Se non ci si libera dalle pastoie dell’Europa intergovernativa non c’è futuro per l’integrazione e se l’integrazione ristagna o regredisce non c’è futuro per l’Europa, e quindi per noi stessi nel mondo’.

Credo non si possa dire meglio. Vogliamo quindi, al concreto, che il nostro Paese sia alla testa dei processi di cooperazione rafforzata che il nuovo Trattato consente.

Vogliamo che nei luoghi della responsabilità multilaterale, dal G 20 al Fondo Monetario Internazionale, i Paesi europei non vadano in ordine sparso.

Vogliamo che dopo l’Euro si coordino finalmente le politiche di bilancio e che nella crisi l’Europa parli ai cittadini con proprie iniziative di investimento, con l’univocità delle politiche di salvataggio di banche e imprese e delle politiche industriali, e con un impulso forte all’integrazione del mercato interno.

E vogliamo che l’Europa torni a darsi un orizzonte politico, quell’orizzonte che le destre europee hanno svilito e che le forze progressiste non riescono ancora ad interpretare.

Sono trascorsi venti anni dalle rivoluzioni del 1989 nell’Europa centrale ed orientale che posero fine al socialismo dispotico e segnarono un fondamentale spartiacque storico.

La fine del comunismo in Europa apparve come un evento epocale che concludeva definitivamente il ventesimo secolo con dieci anni di anticipo sulla cronologia.

Ci fu in quegli anni chi sostenne che alla guerra fredda stesse per succedere lo “scontro tra civiltà” che il destino del mondo fosse l’incomponibilità dei conflitti tra culture diverse o chi ritenne che si fosse giunti alla “fine della storia”, interpretando la caduta del muro di Berlino come l’evento culminante della storia universale.

Si è venuto delineando in questi anni un mondo che non coincide con nessuna di quelle previsioni.

Un mondo che ha conosciuto mutamenti profondi, una straordinaria rivoluzione scientifico-tecnologica in particolare nel campo delle comunicazioni; un mondo in cui hanno fatto irruzione sulla scena paesi come l’India e la Cina; che ha conosciuto processi di democratizzazione, ma anche nuove fratture come quella intervenuta tra occidente e mondo islamico.

Un mondo che non ha ritrovato ancora un nuovo equilibrio.

Viviamo, a vent’anni dal crollo del muro, una stagione ricca di enormi potenzialità ma anche gravida di contraddizioni e di pericoli in un mondo attraversato da una rete sempre più fitta di legami di interdipendenza basati sugli scambi economici e sui mezzi di comunicazione ma segnato insieme da un deficit enorme di regolazione dei fatti globali e da guerre, terrorismo e violenza.

L’Europa deve nutrire l’ambizione di contribuire alla costruzione del nuovo ordine mondiale di cui si avverte l’urgente necessità.

Solo un’Europa unita può assolvere a un tale compito. Quale Paese europeo potrebbe davvero affrontarlo da solo?

L’America di Barack Obama offre all’Europa la possibilità di rafforzare le relazioni transatlantiche.

I due pilastri dell’Occidente possono collaborare in un quadro più aperto e multilaterale per promuovere meglio regole di governo del sistema economico e finanziario, per promuovere la sicurezza e la pace, per contrastare il riscaldamento del pianeta.

Alcune delle ferite aperte nel mondo ci coinvolgono più da vicino e più direttamente.

In particolare gli sviluppi della vicenda afghana appaiono estremamente preoccupanti.

Siamo persuasi che un fallimento degli sforzi della Comunità internazionale di stabilizzare l’Afghanistan avrebbe conseguenze molto gravi nell’intera regione.

Il Partito Democratico esprime un forte e convinto apprezzamento per i militari italiani che nel contesto di una missione promossa dalle Nazioni Unite operano in Afghanistan con dedizione e professionalità pagando anche un alto tributo in termini di vite umane.

Avvertiamo tuttavia l’esigenza di una riflessione sulla tormentata vicenda afghana.

Occorre dirsi la verità: senza conquistarsi il sostegno attivo della popolazione afghana agli obiettivi di pacificazione del Paese perseguiti dalla Comunità internazionale il rischio che la stabilizzazione non proceda è enorme.

La posta in gioco per l’occidente in quella regione è alta ma la si può vincere solo producendo miglioramenti nella condizione di vita dei cittadini afghani.

Ecco perché occorre realizzare la revisione strategica di cui parla da mesi il Presidente degli Stati Uniti.

È auspicabile inoltre un ruolo più attivo dell’Europa su tutte le questioni riguardanti il processo di pace in Medio Oriente che resta in uno stallo preoccupante e pericoloso. Un ruolo che verrebbe certamente visto molto favorevolmente nella regione e non solo dai Palestinesi.

Non aggiungo altro.

Il Partito Democratico ha sempre auspicato che sulle scelte di politica estera vi fosse convergenza tra le grandi forze che rappresentano il popolo italiano nel Parlamento della Repubblica.

Oggi avvertiamo la necessità di lavorare perché l’Italia sfugga ad un destino di marginalizzazione sulla scena internazionale.

Il rischio di un’Italia ininfluente l’abbiamo visto aleggiare in questi mesi.

Lo diciamo unicamente preoccupati del buon nome dell’Italia: ad esempio non fanno bene al nostro Paese posizioni oltranziste sull’immigrazione.

Il problema è enorme e siamo convinti che l’Unione Europea debba fare di più ma il nostro Paese non può sottrarsi al dovere di fornire asilo e protezione a chi ne ha diritto e necessità né riteniamo che l’Italia possa scegliere le posizioni più arretrate e miopi sul tema della cittadinanza.

In conclusione l partito democratico lavorerà, oggi dall’opposizione, domani dal governo perché l’Italia resti fedele all’ispirazione europeista, consolidi sulla base di un rapporto dignitoso e paritario l’alleanza con gli Stati Uniti, mantenga il profilo di una nazione aperta alle esigenze dei paesi più vulnerabili, si impegni perché avanzi un governo vero dei processi globali.

Dobbiamo costruire il Partito che abbiamo promesso ai cittadini che ci guardano, ai militanti che ci sostengono, ai milioni di persone che ci hanno sollecitati ad andare avanti e ad avere una fiducia sicura nel nostro grande progetto.

Teniamo dunque fermi i punti di fondo.

Nessuna nostalgia dive imprigionarci o trattenerci; dobbiamo sentire invece la responsabilità del nuovo da costruire.

Saremo un Partito che, nel bipolarismo, si rivolgerà a tutta l’area del centrosinistra, senza trattini o distinzioni di ruoli e senza pretese di esclusività e con la legittima ambizione di crescere e di farci più forti.

Una volta scelto il grande campo del centrosinistra, non facciamo torto alla nostra intelligenza descrivendo la nostra politica come una coperta da tirare un po’ più al centro o un po’ più a sinistra o inchiodandoci a schemi politici o a parole passate come fossero le figurine Panini di un campionato di quindici anni fa.

In una società complessa, in cui non puoi chiedere troppo alle antiche categorie politiche né tantomeno piegare la politica alla sociologia, quel che vale è il progetto, quel che vale è l’idea di Paese che si rivolge in particolare a quei ceti popolari dove la destra vince, quando vince.

Nella capacità attrattiva di un progetto ci sono tante cose che prese ad una ad una definiremmo di centro o di sinistra ma che nell’insieme dicono invece i valori fondamentali che hai, il Paese che vuoi e come intendi comporre gli interessi.

Al di fuori di questa ambizione non sei né più di centro né più di sinistra: sei semplicemente un Partito piccolo che si condanna ai suoi confini.

E non c’è contraddizione alcuna fra il nostro rifiuto a ritagliarci un angolo del campo e il riconoscimento che non siamo soli nel campo.

Noi portiamo a tutta l’area del centrosinistra una nostra offerta politica ed un nostro profilo che ho definito sociale, civico e liberale; un profilo che dica una parola nuova nel concerto delle forze progressiste europee tutte impegnate in una ricerca alla quale vogliamo contribuire con una nostra specificità e con lo stimolo ad andare oltre antichi orizzonti secondo una linea che abbiamo già cominciato concretamente e positivamente ad applicare nel Gruppo Parlamentare Europeo.

Non trasmetteremo alla nuova generazione dei Democratici il seguito di antiche storie ma piuttosto un’appartenenza moderna, univoca e sicura.

Per questa sintesi abbiamo a disposizione materiali straordinari antichi e nuovi: il popolarismo, la sinistra di governo e del lavoro, il cattolicesimo sociale democratico e liberale, le tradizioni civiche, la nuova sensibilità ambientale.

Abbiamo alle spalle il respiro di secolari movimenti di emancipazione, di radicate culture resistenziali e costituzionali e le vitalità di espressione della società civile che negli ultimi decenni ha accumulato protagonismi e una nuova politicità.

Il nostro problema vero è che nessuno rimanga fermo su quello che ha già saputo o che ha già vissuto e che ognuno faccia un passo e dia una disponibilità generosa al cambiamento.

Avremo un Partito plurale, non c’è dubbio. Ma non nel senso di attribuire ad ognuno una stanza della casa comune.

Ogni sensibilità che liberamente vorrà esprimersi dovrà comunque riconoscersi nelle fondamenta e nei muri portanti di questa casa comune.

Tutto questo non avverrà in astratto o in un giorno solo ma nel concreto delle battaglie, delle posizioni politiche e delle strutture reali con cui conformeremo il nostro Partito.

Popolare e del territorio, abbiamo detto; innanzitutto affermando con questo che noi selezioniamo dal territorio le nuove classi dirigenti, che consolidiamo la vita dei circoli portando lì le risorse necessarie, che ci proponiamo un radicamento nei luoghi di studio e di lavoro.

Qui c’è un problema. Nel nostro percorso abbiamo svolto più di 7.100 Congressi di circolo. Solo 70 di questi riguardano i luoghi di lavoro e solo 10 luoghi di studio.

Propongo quindi di lanciare una iniziativa che discuteremo con i Segretari regionali per fondare nei prossimi mesi 500 nuovi Circoli nei luoghi di studio e di lavoro.

Impegniamoci altresì da subito a costruire una struttura centrale che oggi non abbiamo a servizio delle attività del Partito nei diversi ambiti dell’iniziativa politica.

C’è ancora molto da fare per costruire il nostro Partito. In questi due anni si è determinata una costituzione materiale della nostra organizzazione che va corretta e migliorata.

Convocherò immediatamente la Direzione che oggi eleggeremo per discutere, prima ancora degli organigrammi, dello stato del Partito e di come concepire un suo rafforzamento strutturale.

Già oggi procederemo peraltro ai sensi dello Statuto oltre alla nomina della Direzione a quella del Presidente, del Vice Segretario e del Tesoriere.

Ribadisco qui quel che ho sempre detto nella nostra lunga campagna congressuale.

Penso ad un Partito nel quale c’è bisogno di tutti e nel quale tutti devono collaborare a promuovere una nuova classe dirigente.

Per questo intendo collocare nei luoghi esecutivi esponenti di una nuova generazione già sperimentata e creare attorno a loro la presenza attiva di personalità politiche che possano proteggere il cambiamento mettendo a frutto i vasti sistemi di relazione che possiamo mobilitare.

Tutto questo con uno sguardo plurale e mai fazioso nella attribuzione di ruoli e di responsabilità.

C’è un punto ulteriore che voglio già oggi indicare per la nostra discussione.

Se gli aspetti di confronto e di selezione competitiva in cui ci siamo ampiamente esercitati in questi anni (e che andranno preservati con qualche necessario aggiustamento) non verranno messi in equilibrio con meccanismi centripeti e coesivi propri di ogni associazione, noi rischieremo fenomeni di anarchismo e di feudalizzazione.

Penso che la Commissione già nominata dalla Convenzione per la rivisitazione dello Statuto dovrà occuparsi di questo; di come meglio bilanciare, ad esempio, l’ampia dialettica, l’assoluta libertà di espressione, il valore del pluralismo con l’esigenza di preservare l’autorevolezza e l’univocità delle posizioni del Partito.

Quando si parla di questo, il pensiero va subito ai temi etici di frontiera. Ma il problema non è questo.

Sto parlando invece di una fisiologia che riguarda diffusamente la vita del Partito e che più facilmente impatta nei diversi luoghi del Paese con questioni relative al tracciato di una strada o a un termovalorizzatore o a una nomina piuttosto che a problemi di frontiera.

Se siamo forza di governo, e lo siamo; se siamo il Partito di una democrazia partecipata ed efficiente, e lo siamo, dobbiamo essere all’altezza di noi stessi e risultare lineari e affidabili agli occhi dei cittadini che si aspettano risposte e posizioni chiare sui problemi della loro vita comune.

Esistono poi anche i temi di frontiera, che possono interpellare la coscienza in modo insuperabile.
Non sarà certo difficile trovare gli strumenti che riconoscano questo ambito, percepito peraltro nel senso comune.

In realtà sulle questioni etiche e antropologiche il punto principale sta nella dimensione culturale e politica e nella capacità nostra di mettere a frutto nella discussione, nel confronto e nell’impegno lo straordinario bagaglio culturale che ci ispira, fatto di umanesimi forti, laici e di ispirazione religiosa.

Umanesimi forti che non dobbiamo annacquare, che sono una forza enorme per noi e che dovranno aiutarci ad arrivare fino al punto in cui deve esercitarsi l’autonoma responsabilità della politica che ha un compito ineludibile: quello di rispondere con delle decisioni, per quanto transitorie e fallibili, alle esigenze del bene comune.

È al lavoro anche una Commissione nominata dalla Convenzione per perfezionare il Codice Etico del Partito Democratico.

Voglio qui sottolineare la centralità della questione. Per gli obiettivi che abbiamo, noi non possiamo fare a meno della dignità e del buon nome della politica e dell’amministrazione pubblica.

Quando questi si appannano, la destra ci lucra e noi paghiamo il prezzo.

Dobbiamo dunque porci il problema generale di un rafforzamento della tensione civica ed etica, a cominciare da noi stessi.
È una questione che non può essere semplificata parametrandola, come spesso si fa, sui provvedimenti giudiziari.

Quel parametro, che certo ha un grande rilievo, può tuttavia essere troppo o troppo poco; non ci libera dalle nostre responsabilità.

Un Partito non è una autorità morale ma deve sentirsi tuttavia in qualche modo garante di quella dignità nell’esercizio di funzioni pubbliche che la Costituzione richiede.

Una dignità che non può non comprendere comportamenti privati coerenti con la credibilità e il rispetto che un impegno pubblico pretende.

Dobbiamo chiederci come mai pur avendo indicato le migliori intenzioni nelle nostre carte fondamentali, in questi due anni non sia stato possibile sanzionare nei diversi luoghi del Paese comportamenti non coerenti con i principi che abbiamo enunciato.

Chiedo quindi che la Commissione Etica avanzi proposte non solo di principio ma tali da comprendere strumenti operativi efficaci per dissociare il Partito e il suo buon nome dalle deviazioni di singoli.

Ho detto all’inizio: costruire il Partito, promuovere l’alternativa. Noi siamo il Partito dell’alternativa; preferisco dire così perché l’idea di alternativa contiene sicuramente il concetto di opposizione ma non sempre il concetto di opposizione contiene quello di alternativa.

Vediamo bene sia la forza che oggi Berlusconi esprime, sia d’altra parte, l’impossibilità di disegnare un orizzonte credibile per il Paese e per la sua stessa maggioranza politica.

Dal lato nostro non ci sfuggono certo l’articolazione e la disomogeneità delle forze di opposizione.

Ma le cose non si muoveranno se non ci muoveremo noi. Quello che conta adesso, soprattutto, è il nostro posizionamento.

Noi ci rivolgiamo con apertura ampia e generosa a tutte le forze di opposizione, riconoscendone la specificità e lavoreremo perché si accorcino le distanze fra noi.

Chiediamo agli altri di fare altrettanto; chiediamo che nessuno si sottragga alla responsabilità di offrire agli italiani una alternativa.

È un percorso non breve e certamente non sarà senza inciampi e contraddizioni.

Ma tutti adesso sanno che possono discutere con noi in un clima costruttivo e di reciproco rispetto.

Questo vale per le forze che sono in Parlamento (L’Italia dei Valori, l’Unione di Centro, i Radicali) sia con forze che non sono in Parlamento (Sinistra e Libertà, Verdi, formazioni civiche, formazioni di origine socialista e repubblicana).

Sui temi della democrazia abbiamo aperto un canale di comunicazione e di confronto anche con formazioni con cui non abbiamo prospettive di alleanza come Rifondazione Comunista.

Con questo sguardo ampio e ben consapevoli di tutte le necessarie articolazioni opereremo per avvicinare le posizioni sui temi istituzionali ed elettorali e su quelli economici e sociali.

Con questo stesso sguardo ampio opereremo in vista delle elezioni regionali ed amministrative; con l’obiettivo cioè nel rispetto della dimensione federale, di allestire coalizioni democratiche e di progresso che possano scegliere e promuovere le candidature migliori, anche avvalendosi dei percorsi di partecipazione.

Care Democratiche, cari Democratici, cari Amici, cari Compagni,

ho concluso.

Lo dicevo all’inizio e spero di essere stato compreso.

Mi sono rivolto a voi come ci si rivolge ad un largo gruppo dirigente e in modo consapevole sia della rilevanza e della difficoltà del nostro impegno sia della grande forza che possiamo esprimere.

Tutti noi, assieme, metteremo fiducia nel progetto, tenacia e solidità nel perseguirlo; e soprattutto davanti alla sfida nuova sapremo rinverdire gli ideali che ci hanno portati alla politica ricavando da lì energia e generosità.
Perché in fondo la sostanza sta proprio qui.

Un Partito giovane ci chiede di essere giovani nel cuore.

10 comments to Essere giovani nel cuore

  • Azzurra Mignemi

    Bhè, dicono tanto, si vantano tanto che la Sicilia è il laboratorio d’Italia, che noi anticipiamo le tendenze del resto del Paese. Questo, ovviamente lo dicono quando gli fa comodo. Bene. Ora qui stanno collassando. Secondo la loro teoria, quindi, dopo toccherà al resto d’Italia.

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  • Enzo Granelli

    Ce la farà, ne sono sicuro. Tanto il Pdl sta implodendo. Di sicuro almeno qui in Sicilia. E poi, l’effetto domino è assicurato.

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  • Graziana Musumeci

    A me Bersani potrebbe anche piacere in linea teorica. Ma ora lo aspetta la parte più difficile, essere una vera alternativa ed agire sul serio come opposizione concreta, intransigente e responsabile nel contempo.

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  • Giovanni

    E’ proprio vero che essere giovani dentro è la cosa più importante. A me Bersani sembra il politico più innovativo di tutto il panorama. Speriamo riesca ad esprimersi al massimo.

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  • Vittorio

    Lo spessore di Bersani si vede anche dai semplici particolari quando parla. Secondo me ce la farà prima o poi a divenire premier ed a rimettere in sesto la “baracca” Italia.

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  • Vincenzo Sparri

    Vedremo un po’. Io avverto ancora molta simpatia diffusa nel Paese verso Berlusconi. Bersani è una alternativa credibilissima, ma la strada ancora mi sembra ardua.

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  • Giorgia VT

    Finalmente parole (e spero anche fatti) di sinistra. Dopo anni di leader democristiani come storia o come anima.

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  • Io lo dico da molto che Bersani era l’unica chance del Pd di divenire il partito delle origini, il partito della splendida idea da cui è nato … E da tempo dico che è uno dei pochi uomini in Italia che sarebbe in grado di traghettare il Paese in un compiuto 2000 … Visto che ancora siamo fermi ai primi anni ’80 …
    Però, che coincidenza … Campioni del mondo eravamo allora e campioni del mondo in carica siamo anche ora … Consoliamoci con l’aglietto, si dice a Roma …

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  • Arturo

    Io ne sono certo da tempo. E questo ultimo discorso me lo ha confermato ulteriormenete.

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  • Valeria Morinelli

    Fosse la volta buona che (finalmente), abbiamo “beccato” il leader giusto.

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