da Com.Unità di oggi, l’editoriale di Claudio Sardo
Chiudere il tesseramento prima che inizi il voto nei circoli del Pd, come proposto da Guglielmo Epifani, sarebbe un segno di trasparenza. E anche un’opportuna autocritica per aver consentito, nella fase dei congressi provinciali, l’umiliante oltraggio agli iscritti da parte di truppe cammellate di vario ceppo. Speriamo che qualche opportunismo non impedisca quest’atto di pulizia in extremis, gettando altro fango sull’ultimo partito che ancora resiste con questo nome. Tutto ciò può forse sembrare terribilmente inutile o infinitamente piccolo di fronte ai gravi problemi del Paese, ma la verità è che la questione del partito e del suo ruolo resta il vero cuore della battaglia interna al Pd. non certo perché qualcuno possa ancora immaginare una centralità dei partiti, ma perché la fortissima, persino tumultuosa, domanda di cambiamento che pervade la sinistra (e l’intera società) è di fronte ai nodi irrisolti dell’efficacia del potere e degli strumenti reali che possano dar corpo a una trasformazione sociale.
L’aspirazione a un governo diverso rischia di essere puro spirito se si salta questo passaggio. È vero che le elezioni primarie alludono più a una leadership di governo che non alla guida del partito. È vero anche che il candidato favorito pensa più al governo che al partito. Ma, nonostante il suo folle statuto, è impossibile negare che il congresso debba anzitutto dire cosa il Pd può fare per il futuro del Paese.
C’è chi dice che i partiti non hanno più senso. Che la Costituzione di domani vivrà senza di loro. Che la contesa democratica riguarderà soltanto le leadership. Che il mercato della comunicazione sovrasterà e rimpiazzerà il conflitto sociale. Che, insomma, i corpi sociali non hanno più profondità, né dimensione, ma sono ormai una rete sempre più sfilacciata e insignificante.
Le primarie accentuano anche l’illusione che il marketing elettorale possa sopperire alle lacune politiche o culturali. Ma la svalutazione degli iscritti al partito – che qualcuno vorrebbe persino cancellare, o comunque ridurre al ruolo di allestitori dei gazebo – pone un problema gigantesco proprio alla sinistra e ai suoi valori fondanti: l’uguaglianza, la solidarietà, la persona nelle relazioni sociali che la rendono protagonista. La sinistra ha ancora qualcosa da dire per il futuro dell’Italia, anzi per la sua ricostruzione dopo lo tsunami della crisi? Oppure la sinistra è retaggio del passato, da seppellire anch’essa insieme ai partiti, al Novecento, alla democrazia degli Stati nazionali?
Il Pd non può non dare, al congresso, una risposta a queste domande. E non se la caverà invocando un governo capace di politiche genericamente fondate su maggiore equità. Deve dire con quali forze materiali intende spostare il baricentro sociale dell’azione politica, con quali strutture è in grado di assicurare una nuova partecipazione democratica. Gli anni passati sono stati anni di populismo, di liberismo sfrenato, di tecnocrazia. Dopo i disastrosi governi Berlusconi, abbiamo avuto due governi che potremmo definire «forzatamente» neo-centristi. Governi costretti a operare entro binari strettissimi di compatibilità, fortemente condizionati da fattori esterni, che hanno convissuto quotidianamente con la minaccia di un ulteriore commissariamento. Cos’è la sinistra in questo contesto? Una comunicazione più brillante, un volto più giovane, che però non riuscirà mai a discostarsi davvero dal neo-centrismo forzato?
La sinistra non è mai stata nulla, e non sarà nulla in futuro, se costruirà nel tempo nuovo una sua nuova soggettività politica. Il partito di massa del Novecento è morto. E il dilemma tra partito pesante e partito leggero non porta da nessuna parte. Il problema vero della sinistra è investire su se stessa come corpo politico e sociale, dotato di una propria autonomia culturale, capace di attraversare i conflitti, le sofferenze, i bisogni, e ovviamente di rappresentarli. Il partito nuovo può avere (anzi dovrà avere) forme inedite. Ma non potrà che rifiutare l’identificazione con il governo, che poi vuol dire assimilazione. Deve al contrario farsi garante dell’autonomia del governo da quei poteri esterni, che sono oggi nettamente preponderanti.
La nuova soggettività della sinistra è la questione più concreta che ha di fronte di Pd. Il rischio è che, dopo aver recitato lo spartito del liberismo di sinistra, dopo aver cantato il federalismo di sinistra, ora si riduca a sussurrare di un populismo di sinistra. La destra suona la musica e la sinistra esegue. Magari tentando, dove possibile, di attenuare gli effetti sociali di politiche altrui.
È questo il contesto plausibile di una rivincita della sinistra europea? Questo è piuttosto lo scenario di una sconfitta storica. Il Pd invece ha nel suo dna potenzialità molto importanti. La sua stessa identità «democratica» è una risorsa che può aiutare la famiglia progressista europea – in crisi non meno che nel nostro Paese – ad affrontare l’egemonia perdurante della destra e i populismi emergenti. La sinistra può essere più forte se è capace di attingere risorse anche oltre l’orizzonte socialista. Ma certo non può pensare di liquidare quella storia e quel deposito di cultura sociale e istituzionale. Si parte da lì. Ed è una buona notizia che il congresso del Pse, alla vigilia delle prossime elezioni europee, si svolga a Roma. L’importante è che il Pd sia in campo. E non venga invece ridotto ad un campo indistinto, popolato solo da individui incapaci di rappresentare se stessi e di essere una comunità politica.
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