LACRIME, SUDORE, SANGUE

“Dico al Parlamento come ho detto ai ministri di questo governo, che non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore.” (W. Churchill, Discorso alla Camera dei Comuni, 13 maggio 1940).

Il più grande statista italiano degli ultimi 150 anni (ma solo perchè prima l’Italia non esisteva ancora) si ispira ad uno dei grandi statisti inglesi. Dopo anni persi ad inseguire leggi, decreti e lodi “ad personam” questo governo è stato bruscamente risvegliato dall’Europa e dai mercati. Il re è nudo, ma a gridarlo stavolta non è la voce isolata di un ragazzino, ma l’intera economia  mondiale.

Peccato che adesso per salvare in extremis l’azienda Italia, per evitare di portare i libri contabili in tribunale, a pagare con lacrime e sudore saranno sempre gli stessi. Per il sangue ci ha già pensato Lui, che – forse pensando al “contributo di solidarietà” – ci informa che il suo cuore “gronda sangue” insieme a quello del ministro dell’economia.

Come ha detto Pierluigi Bersani intervistato a La7, in questa manovra quel poco che c’è è a carico di ceti popolari e ceti medi che pagano le tasse. Ma rimane il problema di fondo: Tremonti diceva di voler ristrutturare la manovra, ma non c’è nessuna ristrutturazione. “Si anticipa quella manovra che tutti i mercati del mondo hanno ritenuto inadeguata», quindi «si lascia nell’incertezza totale la situazione.
Sulla manovra combatteremo affinché non sia macelleria sociale». I Democratici faranno le loro proposte. D’altronde da questo governo è difficile aspettarsi qualcosa. Anche perché tutto dipende da una persona, non c’è un vero partito.

Per chiarezza, da l’Unità di oggi 13 agosto 2011 ecco cosa succederà alle tasche degli italiani :

L’obiettivo pareggio costerà lacrime
Ecco cosa succederà alle tasche degli italiani

Per le misure approvate dal consiglio dei ministri,
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Berlusconi e Tremonti: cuore gronda sangue, tagliate 54mila poltrone

Regioni ed enti locali in rivolta: è disastro sociale (Formigoni, Rossi, Errani, Alemanno…)

Tra tagli alle pensioni, nuove ‘eurotasse’, tasse sui ‘patrimoni’, sulle rendite finanziare e sulle seconde case, ecco quali erano le misure indicate prima del Cdm. Per lo più confermate.

CASA
Tra le ipotesi allo studio del Tesoro ci sarebbe anche una “patrimoniale sul latifondo immobiliare”: dunque seconde case e patrimoni di immobili in mano alla speculazione finanziaria. Uno studio dell’Agenzia delle Entrate segnala che su 58 milioni di immobili ci sono circa 10 milioni di case vuote o affittate in nero. Ogni intervento deve però fare attenzione anche ai proprietari di prima casa con mutuo a carico. Altra ipotesi allo studio è quella dell’aumento della ‘cedolare secca’ sugli affitti dal 20% al 23%. Potrebbe essere anticipata anche la Imu, Imposta Municipale Unica (che ricomprenderebbe la tassa sui rifiuti) e (forse) un ritorno dell’Ici sulla prima casa.

PATRIMONIALE O ‘CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA’
Anche se più volte smentita (solo pochi giorni fa Berlusconi ha annunciato: «Finché governo io non si fa nessuna patrimoniale») sembra ormai certa l’introduzione di un ‘contributo di solidarietà’ sui redditi alti. Una misura di questo tipo era stata già prevista in Finanziaria per i dipendenti pubblici. Ora sarebbe estesa anche ai privati. C’è ancora incertezza sullo scaglione di reddito sul quale si applicherà: se sui 60mila, sui 90mila o sui 100mila euro di redditi lordi dichiarati all’anno. Favorevoli ad una tassazione straordinaria dei grandi patrimoni sono i sindacati. Resta la difficoltà di colpire i grandi evasori, i cui patrimoni, non sono censiti dal fisco con completezza.

FISCO
Oltre al taglio di molte agevolazioni e detrazioni fiscali, ci sarebbe la decisione di aumentare l’Iva con un aumento delle due aliquote di un punto percentuale, portando quella ordinaria al 20% e quella ridotta al 10%, mentre resterebbe invariate l’aliquota attualmente al 4%. Questi interventi dovrebbero però essere collegati con un ridisegno delle aliquote Irpef. Potrebbe essere anticipata anche la Imu, Imposta Municipale Unica e (forse) un ritorno dell’Ici sulla prima casa.

PENSIONI
L’intervento dovrebbe riguardare quelle di anzianità con l’innalzamento dell’età minima a 60 o 62 anni. Un possibile anticipo della misura già al 2012 e l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne a 65 anni. Potrebbe anche essere anticipata la riforma che aggancia l’età pensionabile alle aspettative di vita.

SANITA’
Ticket di 10 euro su ogni visita dal medico di famiglia, stesso importo sui primi tre giorni di ricovero, ma potrebbe essere esteso a tutta la durata del ricovero. Per reperire risorse anche allo studio una ‘sfrondata’ degli esenti, che al momento sono il 45% della popolazione.

MERCATO DEL LAVORO
Il governo punta a rendere il mercato ancora più flessibile, ma annuncia, nello stesso tempo di voler ridurre la precarietà e i contratti a termine. La proposta, in apparenza inconciliabile, si può realizzare, secondo il governo, introducendo la libertà di licenziamento. Dunque, contratto a tempo indeterminato, ma che può essere rescisso più agevolmente da parte del datore di lavoro.

FINANZA E BORSA
L’aliquota sulle rendite finanziarie o in borsa potrebbe essere aumentata dal 12,5% al 20%, Quella sui conti bancari o postali diminuita e portata dal 27% al 20%. L’incremento progettato dal governo toccherà i titoli finanziari e non i titoli di Stato che rimarranno al 12,5%.

ASSISTENZA
Nel mirino ci sarebbero sprechi, privilegi e duplicazioni delle misure di assistenza. Assegni famigliari, pensioni sociali, integrazioni del minimo, invalidità e tutti gli altri contributi sociali assegnati a chi non ne ha realmente bisogno. Chi supera certi redditi non riceverà più nulla. Una forte stretta andrà soprattutto sulle pensioni di invalidità. Sulla reversibilità delle pensioni saranno adottati dei criteri anagrafici: dunque, chi è troppo ‘giovane’ non potrà beneficiare della pensione.

LIBERALIZZAZIONI
Piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali (trasporti, erogazione di energia, ecc.) e dei servizi professionali forniti dagli ordini: avvocati, commercialisti, ecc. Sul primo punto c’è, da parte del governo, da superare la recente decisione referendaria sull’acqua pubblica. Sulla seconda, l’ostacolo più grosso viene dall’interno del Pdl, già una parziale liberalizzazione dell’avvocatura contenuta in Finanziaria, fu bloccata dalla violenta reazione dei tanti onorevoli-avvocati.

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LE ANALISI DEI NOSTRI ESPERTI

PENSIONI
La stretta del governo allontana il ritiro. Dimenticati i giovani di Laura Pennacchi
È di pochi mesi fa una valutazione della Commissione Europea (organo principe di quell’Europa sempre invocata a paravento di scelte dovute spesso solo all’insipienza dei governi nazionali) che, nel comparare le previsioni per il futuro, riconosce all’Italia il primato nella capacità di aggiustamento e di contenimento della spesa pensionistica. Sono state le riforme promosse dal centrosinistra (nel 1995, nel 1997, nel 2006) a salvare dal collasso il sistema previdenziale italiano, assicurandogli al tempo stesso equità e sostenibilità finanziaria: la spesa, che in assenza di interventi avrebbe raggiunto il 23% del Pil, a regime si stabilizzerà intorno al 14%.
Di fronte alla mole dello sforzo compiuto (che in concreto ha significato un’enorme capacità di accettare da parte dei lavoratori e delle lavoratrici italiane una straordinaria riduzione delle promesse pensionistiche lasciate irresponsabilmente maturare nel passato), appare ancora più odioso che ora il governo Berlusconi, sotto l’urgenza di fare cassa, voglia reintervenire sulle pensioni, modificando fino al limite della soppressione il pensionamento di anzianità e accelerando per le donne del settore privato l’anticipazione a 65 anni dell’età per la pensione di vecchiaia.
Il pensionamento d’anzianità, dopo l’irrazionalità e l’ingiustizia dello «scalone» introdotto da Maroni e le modifiche razionalizzatrici e equitative apportate da Damiano, si stava appena riequilibrando sull’indubbio forte ridimensionamento già apportato e non ha davvero bisogno di nuovi scombussolamenti.
Ma ancor più grida vendetta contro lo Spirito Santo che si pensi per le donne un’accelerazione dell’anticipazione della soglia dei 65 anni non per utilizzare i relativi risparmi per finanziare servizi sociali fondamentali e «amici» del lavoro delle donne (piano per gli asili, congedi parentali, non autosufficienza, tutte politiche avviate dal centrosinistra e definanziate e sospese dal duo Berlusconi-Tremonti), ma per colmare buchi di bilancio opera della finanza creativa, dell’inerzia, della poca credibilità sui mercati, dell’incapacità della destra nazionale.
In verità, il sistema pensionistico italiano di un correttivo avrebbe bisogno, ma in una direzione completamente diversa da quella a cui si appresta il governo Berlusconi, cioè di dare più peso alle esigenze dei giovani. Tra le positive riforme degli anni passati, infatti, fondamentale è stato il passaggio dal sistema retributivo di calcolo della pensione al sistema contributivo, il quale però non consente l’accumulazione di un adeguato montante contributivo in presenza delle condizioni di ritardato accesso al mercato del lavoro, precarietà, discontinuità, che oggi caratterizzano i giovani.

MERCATO DEL LAVORO
Sacconi e l’ossessione dell’articolo 18 di Umberto Romagnoli
Dal giorno in cui ha comunicato alle parti sociali – era l’11 novembre 2010 – l’intenzione di elaborare uno statuto dei lavori, l’attuale ministro del lavoro non ha mai smesso di interrogare gli astri per sapere quando avrebbe potuto cominciare l’operazione di sostituzione e riordino normativo. Si direbbe che l’ora X scoccherà tra breve. Forse, oggi stesso Sacconi dirà che l’obiettivo di “ridurre almeno del 50%” la normativa vigente in materia di lavoro lo chiede l’Europa. Anche se, poiché l’Europa ha fretta, non ci sarà la possibilità di riesaminare con calma “gli oltre 15.000 precetti” che il suo staff ha conteggiato e selezionare quelli da riscrivere. Quindi, il ministro dirà che c’è soltanto il tempo necessario e sufficiente per decidere l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori; che è poi la sola cosa che gli interessa realmente. E non per furia ideologica, ma per ragioni condivise dall’Europa. Per rilanciare cioè un’economia ferma ed insieme per abbattere il dualismo che spacca in due il mercato del lavoro: da una parte, i super-protetti e, dall’altra, i sotto-protetti flessibili e marginali. In realtà mentre non è affatto certo che si tratti di un incentivo occupazionale, è sicuramente una malvagità mettersi a tosare le capigliature più folte che ci sono in giro col pretesto che, in questa maniera, ai calvi cresceranno i capelli. Fuor di metafora: l’eliminazione della disparità di trattamento penalizzerà tutti gli insider di domani, quale che sia il loro numero effettivo. Sarebbe perciò più ragionevole non servirsi di quello specioso argomento. Tanto più che, se lo avesse voluto, il governo avrebbe potuto adoprarsi in tutti questi anni per ridurre le disparità del mercato del lavoro. Riconoscendo ai precari il diritto ad una retribuzione due o tre volte superiore a quella dei lavoratori di pari qualifica occupati a tempo indeterminato. Correggendo le distorsioni di una legislazione, la sua, che ammette l’assunzione di finti lavoratori autonomi (per cui anche un muratore deve farsi la partita-IVA del piccolo imprenditore) e di lavoratori incaricati di eseguire inesistenti “progetti”. Sì, c’è tanto da fare proprio col riformismo di cui il ministro si considera un maestro. Tranne che tornare al regime della licenza di licenziare nuovamente sottratta al controllo giudiziario, sia pure pagando una penale – come si chiamava una volta – più salata. Dopotutto, nel frattempo anche il pedaggio auto-stradale è aumentato. A questo punto, ci si chiede cosa scaturirà dall’incontro di oggi. Escluderei che si arrivi nell’immediato alla riscrittura della disciplina del licenziamento. Tuttavia, è realistico supporre che proprio questo è il tema centrale della complessa trattativa. Tutto dipenderà dalla scelta del governo. Ai comuni mortali resta la speranza che un governo bisognoso di coesione sociale non potrà permettersi la ricerca della rottura dell’unità sindacale appena ritrovata.

ASSISTENZA
Con i tagli lineari colpiti solo i più deboli di Ruggero Paladini
Nei prossimi due anni una ventina di miliardi dovrebbero uscire fuori dalla spesa di assistenza e dalle agevolazioni fiscali; su circa 240 miliardi un terzo è costituito dalla spesa assistenziale. Già questo dato induce a pensare che nell’anno prossimo sia più probabile che le misure si concentrino su quell’insieme di deduzioni, detrazioni, aliquote ridotte che costituiscono quelle che sono definite come tax expenditures, cioè riduzioni d’imposta. Ben difficilmente, infatti, un ridisegno dell’assistenza può essere partorita dal Mef nel giro di poche settimane.
Il grosso delle agevolazioni fiscali riguarda l’Irpef; e la voce più rilevante sono le detrazioni per lavoro e per carichi familiari. La caratteristica di queste detrazioni è che sono decrescenti rispetto al reddito, e pertanto riducono l’imposta in modo più accentuato per i redditieri con redditi più bassi. Esse costituiscono dunque una componente importante del perseguimento dell’equità verticale (a maggior reddito maggiore incidenza fiscale) e dell’equità orizzontale (a parità di reddito la famiglia più numerosa, o con handicap, deve avere minor incidenza fiscale). È chiaro quindi che intervenire sulle detrazioni significa colpire in modo più accentuato operai, impiegati e pensionati.
Altre deduzioni e detrazioni in sede Irpef non sono collegate al reddito ma alla proprietà della casa d’abitazione, a versamenti a fondi pensione, a spese mediche, a interessi su mutui ipotecari, a premi di assicurazione, e via declinando. Le voci sono tante, ma quelle citate costituiscono oltre il 90% delle agevolazioni. Nel loro insieme queste agevolazioni tendono a crescere, in cifra assoluta, col reddito, ma in termini percentuali invece tendono a diminuire. Anche per queste riduzioni d’imposta, dunque, i tagli incidono di più, nell’insieme, sui redditi medio-bassi.
Non è questo, tuttavia, l’aspetto più negativo. Il punto è che i tagli colpiscono i contribuenti come una specie di roulette russa: la rendita catastale di una casa vecchia è più bassa di quella di una casa nuova, anche se il valore della prima è maggiore; chi è alla fine di un mutuo per la casa paga pochi interessi, mentre chi è all’inizio ne paga tanti; chi ha sostenuto una spesa medica rilevante quest’anno si salva, mentre chi la dovrà affrontare l’anno prossimo sarà colpito. Sull’assistenza, come si è detto, è da escludere un intervento organico, ma sono possibili misure parziali, in particolare sulle pensioni d’invalidità, indicate spesso da Tremonti come settore di sprechi e truffe. Che ce ne siano è indubbio, ma il modo migliore per affrontare il problema è un’intensificazione dei controlli, mentre tagli lineari non risolvono il problema e colpiscono persone che hanno tutti i diritti ad usufruire delle prestazioni. La spesa per assistenza in Italia è nettamente più bassa che negli altri grandi paesi europei; a parte l’indennità di accompagnamento i vari benefici sono sottoposti a diverse forme di prova dei mezzi (dagli assegni al nucleo familiare a quelli di maternità e per il terzo figlio alle pensioni sociali). Una razionalizzazione in materia sarebbe opportuna, ma occorrerebbe anche cambiare le regole che riguardano l’Isee (l’indicatore della prova dei mezzi). Ma su questo tema, connesso a quello dell’evasione, è difficile che questo governo, al di là delle parole, si decida ad intervenire.

LIBERALIZZAZIONI
Lobby e oligopoli risparmiati dal governo di Antonio Lirosi
Cadute nel dimenticatoio le liberalizzazioni sono prepotentemente tornate di attualità: anche la Bce si è unita al drappello di coloro che le invocano per favorire la crescita. Nei tanti anni in cui ha governato il centro-destra le liberalizzazioni non sono mai state in programma, né potevano esserlo perché ciò avrebbe intaccato gli interessi di oligopolisti, lobbies e corporazioni facenti parte del suo blocco elettorale. E se in queste ultime settimane non sono più tabù, lo si deve soltanto al fatto che l’agenda viene condizionata da parti sociali e organismi internazionali. Il governo Berlusconi, oltre a sbagliare il segno delle numerose manovre varate, ha fatto di peggio nel campo delle liberalizzazioni: non solo non è stato in grado di presentare il disegno di legge annuale sulla concorrenza, ma la sua maggioranza ha depotenziato alcune delle misure delle lenzuolate di Bersani, quali quelle su polizze pluriennali, autoscuole, tariffe minime, parafarmacie, guide turistiche. Soltanto con l’ultima manovra dal governo è giunto, in modo confuso, qualche segnale in direzione opposta, anche se le norme approvate sui carburanti e sull’apertura dei negozi sono servite più a fini propagandistici che non a produrre effetti concreti. E poi come valutare il lancio del sasso nello stagno degli ordini professionali? Con il pronto ritiro della mano nel corso del varo del decreto-legge, tanto era radicale e goffo il tentativo di cancellare gli esami di stato e sopprimere gli Ordini senza una proposta organica di riforma. Liberalizzare è una cosa seria che richiederebbe una visione chiara degli obiettivi e una strategia riformista che non può essere improvvisata, se si vuole davvero scongelare la società da vecchi schemi corporativi; promuovere il merito e la concorrenza; suscitare speranza nei giovani; ridare potere di acquisto ai consumatori. E se oggi il nostro Paese non parte da zero, lo si deve alle riforme avviate dai governi di centro-sinistra che sono intervenuti organicamente per liberalizzare i settori dell’elettricità, del gas, della telefonia, dei trasporti e, senza alcun vincolo comunitario, il commercio, con la riforma Bersani del 1998 che ha abolito licenze e tabelle merceologiche. Tutto questo è stato possibile senza dover scomodare il nostro dettato costituzionale, di cui l’attuale articolo 41 può essere considerato un nonno lungimirante degli interventi di regolazione in chiave pro-concorrenziale. Dunque l’Italia ha oggi bisogno di un nuovo ciclo di liberalizzazioni, per aprire alla concorrenza mercati chiusi, per dare più potere ai consumatori, per eliminare ingiustificate barriere di accesso a categorie e professioni, per dotarsi di Autorità realmente indipendenti dal potere politico. Allora occorrerebbe portare subito a compimento la riforma del sistema delle professioni, da un lato modernizzando il ruolo e l’assetto degli Ordini (anche per ridurre privilegi e costi degli organi direttivi) che si dovrebbero occupare della tutela di interessi generali, quali la qualificazione degli operatori (senza vincoli numerici e accorciando la distanza tra la formazione e lo sbocco professionale), la corretta informazione agli utenti, la concorrenza leale, le pari opportunità di genere e generazione, e dall’altro lato, riconoscendo il ruolo delle libere associazioni costituite tra professionisti. Nel campo della distribuzione sarebbe poi utile ampliare il processo di liberalizzazione nella vendita dei medicinali e creare condizioni concorrenziali in tutta la filiera.

PRIVATIZZAZIONI
Vendere Eni ed Enel sarebbe il suicidio industriale di Paolo Bonaretti
Privatizzare non è di per sé né un bene né un male per l’economia. Insomma possono esistere beni ed imprese pubblici gestiti bene e beni ed imprese private gestite male, e viceversa. Vi sono poi particolari categorie di beni, servizi e imprese, la cui gestione, le cui politiche è bene che rimangano nella sfera pubblica, a causa della loro valenza strategica o della loro rilevanza per la coesione sociale o per la sicurezza dello Stato. D’altra parte in un mercato e in uno Stato sani è bene che tutto ciò che non rientra in queste categorie venga lasciato alla libera iniziativa e impresa privata (profit, mutualistica, sociale), secondo un principio fondamentale di sussidiarietà.
Oggi, di fronte a una manovra finanziaria tutta da rifare, la questione “privatizzazioni “ rischia invece di venire proposta in chiave essenzialmente ideologica, pregiudicando la capacità industriale del Paese e in particolare il futuro di qualsiasi politica industriale. È ovvio: una politica di privatizzazione del patrimonio pubblico può contribuire a migliorare i conti pubblici, ma quali privatizzazioni, in che modo? Se si tratta di privatizzare quella parte di patrimonio pubblico inutilizzato, scarsamente produttivo, specie di carattere fondiario e immobiliare, o in settori dove il mercato fa egregiamente il suo mestiere, allora questa si configura come un’operazione salutare per l’economia.
Se invece si tratta (come è verosimile oggi) del settore energetico o di settori strategici con particolare riferimento ad Eni, Enel, Finmeccanica e alle public utilities (addirittura del settore sanitario!), è tutt’altra questione. La politica e l’industria dell’energia, delle risorse idriche e in generale delle tecnologie per l’energia e l’ambiente sono strategici. La politica industriale in questo campo sarà una delle maggiori chance dell’Italia nei prossimi anni: la presenza di grandi imprese nazionali capaci di competere ne sarà un pilastro fondamentale. A chi dovremmo lasciarle in mano o peggio ancora svenderle? Ad aziende straniere che operano negli stessi settori, casomai russe? Agli attori della finanza che oggi stanno speculando contro il nostro debito pubblico? O ad imprenditori poco avveduti che sfruttino gli asset esistenti e le loro capacità “tariffarie” dimenticandosi completamente degli investimenti? In questo caso la privatizzazione non è la soluzione. Può essere affrontata in modo graduale, con condizioni particolari, ma la definizione delle strategie industriali internazionali in questi settori sono una questione nazionale. Stesso ragionamento per settori ad alta tecnologia e forniture militari. Si aggiunga poi che la politica industriale ha bisogno di grandi imprese nazionali, anche per sostenere il sistema di piccole e medie imprese italiane.
Per le public utilities è necessario rimuovere tutte le condizioni di monopolio esistenti, evidenziando in tal modo anche quelle efficienti e inefficienti (che, queste sì, dovrebbero essere obbligatoriamente dismesse). Non si capisce invece perché “svendere” in tutta fretta il patrimonio degli enti locali : equivarrebbe ad aumentare le tasse locali, senza alcun principio di progressività. Allora, mi chiedo, non sarebbe meglio meglio richiedere un contributo di solidarietà a quel 10% di italiani più ricchi che negli ultimi 15 anni ha visto crescere la propria ricchezza, fino possedere oggi il 45% del totale nazionale?

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