“…Tutti quelli che sono affamati di sapere scopriranno nel mio regno i mezzi per soddisfare le loro necessità e non saranno obbligati ad andare all’estero per amore degli studi…”
Forse pensavate fossero parole di Maria Stella Gelmini?
…NO!!!
Devo purtroppo deludere chi pensava di avere indiduato nel Ministro dell’Istruzione l’autore di frasi così illuminate e illuminanti, perchè per scoprirlo bisogna invece risalire al 1224. E’ con queste parole di Federico II di Svevia che comincia la relazione di minoranza sul “decreto Università” che il vice presidente della Commissione Cultura, Luigi Nicolais, ha presentato oggi in aula. Sono parole che oggi appaiono beffarde nella loro ovvietà, perchè questo governo si è mosso e continua a muoversi esattamente nel senso opposto rispetto a quanto veniva detto già otto secoli fa.
Per contestare questa azione demolitrice della cultura e dell’intero mondo dell’istruzione italiana esprimiamo in questo documento, che vi ripropongo integralmente, tutta l’insoddisfazione e la preoccupazione che sentiamo nei confronti di questo governo.
Un governo che arrogantemente presenta in aula decreti blindati dalla “questione di fiducia”, in attesa di un definitivo crollo che, per fortuna, appare sempre più vicino.
Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario. (C. 3687)
Relazione di Minoranza
Signor Presidente,
Signori rappresentanti del Governo,
Onorevoli Colleghi,
Il 5 Giugno1224 con la “generalis lictera”, nel fondare l’Università degli Studi di Napoli, fu emanato solennemente l’editto che affermava: “Federico II di Svevia per grazia del Signore Imperatore dei Romani e Augusto Re di Gerusalemme e di Sicilia, agli arcivescovi, vescovi e altri prelati della Chiesa, ai margravi, baroni, giudici, ciambellani….. Noi ordiniamo che a Napoli, la più amabile di tutte le città, saranno insegnate tutte le arti professionali e sarà stabilita una sede di studi così che tutti quelli che sono affamati di sapere scopriranno nel mio regno i mezzi per soddisfare le loro necessità e non saranno obbligati ad andare all’estero per amore degli studi ….”
Se l’Università assumeva tale centralità per un regnante circa 800 anni fa, ancor maggiore consapevolezza dovremmo attenderci oggi da una moderna classe politica.
In una società della conoscenza in cui la competizione ha una dimensione globale bisogna puntare principalmente sulle Università come elemento di sviluppo del Paese. E’ necessario riuscire a formare giovani capaci e competenti e sviluppare conoscenza e ricerca che, da un lato possano essere trasferite alle imprese (che, peraltro, solo attraverso una smaterializzazione del loro prodotto riescono a mantenere una posizione competitiva in uno scenario globale) e, dall’altro, creare una classe dirigente all’altezza della complessità delle sfide che la società ci pone.
La nostra università ha saputo fino ad oggi, anche con molta difficoltà, mantenere una produzione scientifica che posiziona ancora il nostro Paese tra le prime nazioni industrializzate, nonostante il basso numero di ricercatori e le scarse risorse finanziarie.
Quante straordinarie risorse intellettuali frutto di anni di sacrifici nelle aule e nei laboratori delle nostre Facoltà hanno trovato la loro collocazione in grandi multinazionali all’estero ? Quante migliaia di ricercatori italiani nel mondo spesso costituiscono comunità scientifiche, universalmente riconosciute per la loro qualità e per la loro capacità ? Si pensi che a Boston presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology i tanti ricercatori con passaporto italiano, impegnati tra centri di ricerca e multinazionali che con essi interagiscono, hanno sentito la necessità di riunirsi in una comunità chiamata MIT-ITALY, per condividere lo straordinario bagaglio di conoscenza acquisita in patria e valorizzata in uno dei principali centri di eccellenza del mondo.
Tali dati richiederebbero una maggiore umiltà nell’affrontare certe critiche indiscriminate al nostro mondo universitario, alla sua classe docente, ai suoi ricercatori e ai suoi studenti.
Soprattutto dovrebbero farci agire con maggiore cautela nel proporre tagli indiscriminati che finiscono con accelerare le ondate migratorie delle nostre migliori intelligenze a favore delle economie dei nostri competitor su scala globale.
Sicuramente la nostra università, come molte altre istituzioni, ha bisogno di una riforma che tenga conto dei grandi cambiamenti che negli ultimi anni sono avvenuti.
In un sistema che cambia a grande velocità non possiamo consentirci di lasciare immutato il nostro impianto di alta formazione. Ed è per questo che come Partito Democratico abbiamo sostenuto, sin dalle prime battute dell’esame dell’iter legislativo del DDL di riforma dell’Università, la necessità di pretendere un cambio di passo dal sistema universitario. Attraverso un maggiore impegno del corpo docente delle università, non solo nello sviluppo di conoscenza e nell’attività di formazione, ma anche ponendo attenzione alla possibilità di trasferire al territorio i risultati della ricerca prodotta.
Purtroppo, dobbiamo constatare che questo Governo ha seguito un percorso che non è stato all’altezza delle sfide che abbiamo innanzi a noi. Il Governo ha affrontato il problema della riforma dell’Università puntando principalmente al risparmio della spesa.
Le stesse risorse contenute nella manovra finanziaria appena approvata, se da un lato dimostrano che era necessario correggere il tiro rispetto ai molteplici tagli già operati per il settore, dall’altro risultano essere totalmente insufficienti per assegnare all’intero comparto dei saperi quel ruolo chiave necessario per il rilancio del Paese.
Per poter far in modo che l’opinione pubblica non maturasse un’accesa ostilità nei confronti di questi tanto pericolosi tagli, è stato ancora più grave la campagna denigratoria messa in atto nei mesi scorsi dai media e da settori del mondo politico enfatizzando alcuni problemi reali, peraltro presenti anche in altri settori della vita pubblica e professionale, ma che strumentalmente nell’università si è voluto far passare quale regola generale del sistema.
Il danno più grave prodotto da questa campagna è stato quello di aver tolto ai giovani studenti la possibilità di guardare al proprio docente come ad un modello di riferimento.
Anziché tentare di rafforzare la credibilità di un’istituzione, quella accademica, che quotidianamente si cimenta con la difficoltà di dare coscienza alle nuove generazioni del proprio ruolo all’interno della società, si è voluto rappresentare agli occhi del cittadino il facile luogo comune dell’Università fonte di sprechi e rendite di posizione.
Purtroppo, il risultato di questa scelta politica non è stato quello di agevolare la riduzione degli investimenti in questo settore, ma quello di avvelenare il clima ed esasperare ancora di più chi ha scelto di dedicare la propria vita alla Ricerca e si aspettava dai propri governanti più lungimiranza e maggiore coraggio negli investimenti.
Oggi ci troviamo ad esaminare questo Disegno di Legge, nella sua stesura successiva alle modifiche apportate dalle competenti commissioni parlamentari, nella consapevolezza che il suo corpo normativo presenta delle contraddizioni di fondo che non sono state risolte.
Principi quali l’autonomia, la libera formazione e la libera ricerca enunciati con molta forza all’articolo 1 del provvedimento in esame, e sicuramente condivisibili, vengono però totalmente contraddetti dalle prescrizioni indicate negli articoli successivi, che rappresentano il corpus vivo del disegno di legge.
Si pensi a come da un lato si stabilisce con un dettaglio che appare stringente e invasivo la minuziosa composizione degli organi di governo e, dall’altro, si introduce il concetto dell’Accordo di Programma con il Ministero per sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, permettendo di disattendere alle norme prescritte a seguito di un accordo tra parti, mortificando la vera autonomia e centralizzando in maniera burocratica i luoghi decisionali.
Secondo la stessa impostazione anche i piani triennali di sviluppo, che nelle enunciazioni governative dovevano rappresentare un alto momento di politica universitaria, si riducono ad un’attività burocratica che deve essere approvata e condivisa dal Ministero per l’Università, l’Istruzione e la Ricerca Scientifica (MIUR).
L’intero impianto della riforma universitaria che ci viene proposta punta a farci ritornare ad un sistema centralista e, con l’approvazione dell’emendamento all’art. 25, si introduce un evidente tutoraggio del MIUR da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Nel disegnare l’architrave normativo della nuova università, ci saremmo aspettati una maggiore attenzione nel prevedere delle precise norme transitorie. Purtroppo, dobbiamo constatare che anche queste fondamentali disposizioni sono del tutto insufficienti, non prevedendo cosa succederà a circa 25.000 ricercatori cui, peraltro, è stato anche già annullato lo scatto stipendiale, e a decine di migliaia di precari che contribuiscono in modo essenziale a sostenere tanto la ricerca, quanto la didattica degli Atenei anche superando quanto previsto dalla legge 382 attualmente vigente.
Inoltre Il disegno di legge che stiamo esaminando non vara una riforma a costo zero, ma una riforma che opera all’interno di tagli che hanno già messo in ginocchio le università.
Il principio economico che la ispira non trova pari nel quadro comunitario. Altri paesi d’Europa, che condividono con noi comuni esigenze di bilancio e preoccupazioni per l’instabilità finanziaria, hanno investito in Ricerca e Innovazione.
Francia e Germania hanno accompagnato le loro misure di programmazione economica e finanziaria con massicci investimenti in conoscenza, consapevoli che ogni risorsa allocata per la filiera della conoscenza può divenire, in un sistema che funziona, moltiplicatore di sviluppo e catalizzatore di ripresa economica.
L’Italia, purtroppo anche con questo disegno di legge che ci accingiamo a votare, si attesta sempre di più come fanalino di coda delle classifiche tra i paesi più sviluppati per l’investimento in ricerca e alta formazione. Il taglio di 1 miliardo e 300 milioni di euro operato nel finanziamento delle università in questi ultimi 3 anni rappresenta un dato gravissimo del quale paghiamo le conseguenze quotidianamente, ipotecando effetti nefasti per prossimi anni se non invertiremo la rotta. Gli 800 milioni di Euro appena assegnati con la finanziaria rappresentano solo una parte del Fondo di Finanziamento Ordinario già decuratato e quindi sono una misura totalmente insufficiente per ogni eventuale nuova assunzione e non possono essere propagandati quali investimenti aggiuntivi.
Con questo non vogliamo difendere acriticamente lo status quo. Il Partito Democratico è nato per proporsi come forza politica per il cambiamento necessario al Paese. Di conseguenza siamo consapevoli dell’urgenza non tanto di singole misure correttive, quanto di un provvedimento che metta a sistema l’intera cornice legislativa che disciplina il mondo dell’università in ogni suo aspetto.
Ma crediamo in un’altra riforma dell’Università italiana. Le riforme coraggiose, quelle che rispondono all’interesse generale del paese non possono subire condizionamenti solo dalla necessità di ridurre i costi.
Abbiamo bisogno di un testo unico snello di principi e di regole chiare a cui gli atenei devono attenersi (nel reclutamento, nella formazione, nella valutazione), operando secondo il paradigma della massima autonomia e della massima responsabilità.
L’autonomia è l’elemento fondativo caratterizzante il sistema universitario, ma per perseguirla abbiamo bisogno di risorse, programmi e progettualità strategiche che rendano il sistema universitario coeso e funzionale alle esigenze di un moderno sistema Paese. Nel DDL assistiamo ad un rinnovato accentramento amministrativo e alla minuziosa elencazione di obblighi a cui le università devono conformarsi. Necessitiamo, invece, di una rivisitazione e una riorganizzazione degli atenei in un’ ottica politica più generale e complessa rispetto a quella fino ad oggi adottata. Le università debbono essere messe in condizioni di poter esercitare una funzione più incisiva nella società, e per fare questo devono agire con la consapevolezza che occorre aprire una nuova fase progettuale che coinvolga e integri più soggetti e istituzioni. Ecco perché dobbiamo partire dall’autonomia. Soprattutto adesso che essa deve essere declinata insieme a federalismo, sussidiarietà, valutazione e governance multilivello.
Ma l’autonomia deve essere cardine di un sistema fatto di validi contrappesi. Solo la valutazione da parte di enti terzi fungerà da argine contro le spinte degenerative di una cattiva concezione dell’autonomia riconosciuta. La valutazione delle attività come strumento di controllo dei risultati e di trasparenza pubblica è, e deve essere, un punto fermo su cui costruire la forza del sistema che immaginiamo per gli Atenei.
Siamo consapevoli, tuttavia, che per tramutare concretamente la valutazione in una prassi che faccia perno sulla massima responsabilizzazione degli attori universitari dobbiamo avere il coraggio di parlare non solo di valutazione ex ante, ma principalmente di valutazione ex post. Solo così saremo in condizione di premiare i comportamenti virtuosi delle università, dei Dipartimenti e delle diverse strutture accademiche, esaltando una concezione di merito e isolando storture e sperperi. La valutazione delle attività come strumento di indirizzo strategico, di controllo dei risultati e di trasparenza pubblica è, e deve essere, un punto fermo su cui costruire la forza del sistema.
Già nella passata legislatura è stata creata l’ANVUR, che nelle intenzioni di tutti dovrebbe rappresentare l’organo terzo capace di effettuare valutazione oggettiva sia della produzione scientifica che delle attività didattiche, ma anche del funzionamento delle università. Perché, a distanza di quasi 3 anni, l’ANVUR non è ancora operativa ?
In questo Disegno di Legge si parla frequentemente di valutazione senza avere ancora con chiarezza definito le variabili da misurare e le metodologie da utilizzare !
Anche in questo caso, come in tanti altri, il DDL Gelmini rimanda ad una serie di decreti attuativi e di decreti delegati rendendo questa riforma molto vaga e priva di immediata efficacia.
Anche il reclutamento, che rappresenta un elemento essenziale per il futuro delle università, è fortemente condizionato da tutte le scelte di carattere economico effettuate da questo Governo. Anche alla luce del previsto forte esodo dei docenti nei prossimi anni sarebbe stato necessario un significativo ingresso di giovani nel sistema universitario per poter evitare all’università una carenza di capacità didattica e di ricerca.
Desta particolare preoccupazione il modo in cui è affrontato dal testo del disegno di legge il tema della governance del sistema universitario. Siamo scettici rispetto all’idea di un modello rigido unico che passi per norme di dettaglio omogenee per tutte le università. Gli Atenei italiani sono molto diversi tra loro per dimensioni, caratteristiche e ambiti culturali e un “unico modello ” non sembra adeguato a rispondere alle diverse esigenze.
Si costruisce un nuovo modello di governo delle università solo individuando un obiettivo strategico. Questo dovrebbe essere ispirato al principio dell’ accountability, inteso come un solenne e sistematico impegno a render conto dei propri risultati con modalità trasparenti. Ad oggi nell’università una concezione fuorviante e strumentalizzata del pur prezioso concetto di “garanzie democratiche” a tutto campo, ha condotto alla formazione di strutture di governo pletoriche, a procedure decisionali lente e pesantemente gerarchiche, all’impropria commistione tra forme di rappresentanza e compiti di governo. Un obiettivo coraggioso è senza dubbio rappresentato dalla semplificazione stessa degli strumenti di governance e di organizzazione delle università. Abbiamo bisogno di giungere ad una riduzione del numero di corsi di laurea e di dipartimenti attraverso un accorpamento e razionalizzazione degli insegnamenti, garantendo agli stessi studenti la possibilità di una più ampia possibilità di articolazione dei propri percorsi formativi.
Al consiglio di amministrazione va assegnato un deciso compito di programmazione e di governo e il contributo di competenze esterne è senz’altro occasione di rafforzamento per l’Ateneo, a condizione che siano individuate funzioni chiare e specifiche per tali componenti.
Lo stesso Senato Accademico appare privo di una sua missione istituzionale definita e, stante il suo ruolo primario finora assolto, risulta depotenziato. Crediamo che una sua rinnovata centralità risieda in un suo forte ruolo di massima garanzia, di rigoroso controllo e di programmazione e promozione delle attività scientifiche e didattiche.
Le Università esistono in quanto esistono gli studenti che le frequentano. In questo DDL è mancata la centralità dello studente intorno al quale costruire un sistema che possa assolvere ai suoi compiti istituzionali.
Infatti, sarebbe stato necessaria, ad oltre dieci anni dalla sua introduzione, un’analisi del sistema di formazione basato sul 3+2 per poter essere in grado di effettuare i necessari aggiornamenti.
Altrettanto preoccupante è il capitolo Diritto allo Studio. Nel nostro paese appena l’8% degli studenti riceve una borsa di studio. Circa la metà degli studenti idonei, perché meritevoli ma privi di mezzi economici sufficienti, non è assegnatario del contributo economico cui ha diritto. Nel mezzogiorno gli assegnatari sono, addirittura, una netta minoranza. Abbiamo il minor numero di alloggi residenziali d’Europa. Più dell’80% degli studenti si iscrive alle facoltà della propria regione di residenza. Tutto ciò mentre il diritto allo studio è solennemente sancito come principio inderogabile dall’art. 34 della nostra Costituzione. Il disegno di legge introduce genericamente un Fondo nazionale per il merito senza dare contenuto cogente a queste disposizioni, non individuando dei criteri chiave per la loro attuazione ed eludendo scandalosamente il tema delle risorse necessarie a colmare le carenze che gli studenti hanno denunciato con imponenti manifestazioni appena qualche giorno fa, in ogni città universitaria.
Ancora una volta assistiamo a un principio genericamente enunciato che non si concretizza in misure tangibili e che non trova soluzione ai problemi già esistenti, soprattutto per una totale mancanza di fondi di copertura.
Ci saremmo aspettati una legge coraggiosa di riforma dell’Università che affrontasse tutti i nodi che abbiamo qui evidenziato che sono a gran voce rivendicati da tutti i suoi attori: docenti, studenti, ricercatori, personale amministrativo.
Ci troviamo, invece, ad analizzare un testo che continua ad essere viziato da misure di finanza pubblica che ne hanno svuotato qualsiasi prospettiva di cambiamento reale dell’esistente.
Pertanto non possiamo che ritenerci insoddisfatti dal contenuto di questo Disegno di Legge: esso non risponde alle esigenze di un Paese che vuole essere competitivo e che richiede un sistema di alta formazione responsabile e competente.
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