Bruno Ugolini su l’Unità – 19 marzo 2012
Marco Biagi, uccisero l’uomo che credeva nelle riforme
L’anniversario: dieci anni fa l’omicidio per mano brigatista del giuslavorista vicino al mondo del lavoro e alla sinistra.
Era un riformista, fece la stessa fine di Tarantelli e D’Antona.
Sono arrivati puntuali gli assassini. Hanno sacrificato un’altra volta un eminente studioso del lavoro». Iniziava così un mio breve commento sulla prima pagina di questo giornale il 20 marzo del 2002. La notizia dell’orribile fine di Marco Biagi era giunta nella serata del 19 e aveva sconvolto gli animi, scosso le coscienze, aizzati strumentalismi. Marco Biagi viveva nelle menti di tante donne e tanti uomini della Cgil, ma anche della Cisl e Uil, nonché dei militanti dei partiti di sinistra e centrosinistra, come un uomo profondamente legato ai destini e ai valori della sinistra. Certo non sensibile ad animose scommesse rivoluzionarie, ma che voleva ricalcare il passo graduale e paziente delle riforme. Un figlio della sinistra.
Era l’intellettuale che nella prima metà degli anni settanta era responsabile della redazione sindacale della rivista «Quale giustizia». Accanto a collaboratori come Romano Canosa, Angelo Converso, Amos Pignatelli, Umberto Romagnoli, Luigi Saraceni, Nicola Tranfaglia, Luciano Violante. Uno studioso che voleva contribuire al rinnovamento delle cosiddette «relazioni industriali», ovverosia delle regole più idonee a gestire i rapporti tra capitale e lavoro. Non a caso era stato tra i consulenti di un ministro del lavoro come Antonio Bassolino.
Questo era il primo ricordo.
Era però lo stesso uomo, lo stesso studioso che aveva creduto di poter continuare la propria attività, collaborando con alcuni esponenti del governo di centrodestra, convinto che anche in quel campo vi potesse essere spazio per affermare i valori del mondo del lavoro. Ecco perché la sua morte suscitava quella sera di marzo nel cronista, ma anche in tanta parte del popolo di sinistra, credo, sentimenti di dolore, ma anche di angoscia, magari di rimorso.
E la memoria andava subito a tante vittime di una specie di strage silenziosa destinata a colpire tra i migliori giuslavoristi del nostro paese: Ezio Tarantelli, Massino D’Antona.
Antonio Pizzinato, già segretario generale della Cgil, ha rievocato, in un libro di prossima pubblicazione, una collaborazione con Marco Biagi (quando lo stesso Pizzinato era sottosegretario al lavoro) per la definizione della legge per il collocamento dei disabili.
C’erano stati, confida, discussioni e confronti dialettici anche forti, ma riconosceva come Biagi avesse dato un contributo importante al varo di quella legge. La tesi del dirigente Cgil è che occorra distinguere tra il pensiero dello studioso e l’operato dei ministri che debbono avere la piena responsabilità delle scelte compiute. Ecco perché è apparsa a molti strumentale
la strombazzata intenzione di chiamare «legge Biagi» la famosa legge 30, firmata dal duo Roberto Maroni-Maurizio Sacconi. È’ la legge che ha introdotto oltre 40 soluzioni contrattuali, contribuendo a far dilagare la precarietà italiana. Una legge che, così diceva Bruno Trentin, avrebbe dovuto essere chiamata «legge Maroni».
Era stato, invece, un battesimo nel nome di una vittima illustre che difficilmente avrebbe assecondato una strategia che divideva il mondo del lavoro, inviandone una buona fetta allo sbando, senza mettere in campo la necessaria rete di ammortizzatori sociali. La rete che forse in questi giorni si potrebbe approvare. Quei suoi «cari amici», nelle vesti di avvoltoi, avrebbero dovuto, invece di piangere lacrime di coccodrillo, occuparsi in tempo della tutela dello studioso bolognese. Tutti sapevano delle nuove insorgenze terroristiche e dei rischi che si addensavano sulla figura di Biagi. Ma gli era stata tolta la scorta e invano lui aveva protestato. Era considerato semplicemente, come aveva affermato rozzamente il ministro dell’Interno Claudio Scajola «un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza».
Resta il fatto che quella morte, quella sera del 19 marzo 2002, alla vigilia (soltanto quattro giorni dopo) della colossale manifestazione al Circo Massimo di Roma, con la Cgil di Sergio Cofferati, interrogò tutti noi. Soprattutto per quel concatenarsi di atti terroristici nei confronti di uomini che si adoperavano per cercare soluzioni ai problemi del lavoro. E al cronista
veniva in mente il dipanarsi, in un’altra epoca, gli anni settanta, di altre lotte. Un’epoca contrassegnata da un potente movimento democratico, oggi quasi dimenticato, colpito al cuore proprio dal dispiegarsi della «lotta armata» intrapresa dalle cosiddette Brigate Rosse.
Si celebravano, proprio qualche sera fa, i 150 anni dell’Unità d’Italia, all’insegna del lavoro, con un emozionante spettacolo voluto dalla Cgil all’Auditorium di Roma. Era un sovrapporsi, con la regia di Minoli, di filmati, musiche e canti, di data in data. Ed ecco, giunti appunto a quei terribili anni settanta, il susseguirsi di stragi e delitti. Che finivano con l’oscurare, a me pareva, quello che era stato il vero cuore di quel tempo, con un sindacato che si rinnovava e metteva radici, portando un soffio di democrazia in tutti i gangli della società. E che aveva per esempio determinato anche la stessa nascita dello Statuto dei lavoratori. Una vera riforma del lavoro.
E la domanda amara oggi è: quanti la considerano ancora una riforma del lavoro da non far naufragare? Sarebbe una bella discussione da fare con Biagi, D’Antona, Tarantelli.
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