Pier Luigi Bersani è in netto vantaggio su Dario Franceschini in vista delle primarie del 25 ottobre. Se si dovesse dare credito alle cifre di un sondaggio svolto da un autorevole istituto come Ipr Marketing, non dovrebbero sussistere dubbi sull’identità del prossimo segretario del Partito democratico. Le cifre, di cui diamo conto in un altro pezzo, regalano infatti circa venti punti di vantaggio all’ex ministro dello Sviluppo. Molto staccato Ignazio Marino, il «terzo uomo» nella corsa alla leadership.
Naturalmente si commetterebbe un grave errore a considerare chiusa la partita: i sondaggi sono sempre merce a rischio, tanto più se si esercitano su una platea sfuggente come quella delle primarie democratiche. E probabilmente non mancheranno da qui alle prossime settimane contro-rilevazioni più benevole verso l’attuale leader, secondo la più classica delle guerre di sondaggi.
Sono invece altri i dati su cui i principali contendenti farebbero bene a concentrarsi. Cioè quelli sulla partecipazione e il coinvolgimento dell’elettorato: bassi, nonostante per la prima volta non sia scontato già in partenza il nome del vincitore delle primarie. Dati che peraltro sono perfettamente in linea con la lunghissima fase di stallo politico vissuta dal principale partito d’opposizione, già esemplificata al massimo livello dal surreale rinvio delle nomine al Tg3 (nel Pd congelato dallo scontro congressuale si preferisce aspettare l’esito della sfida prima di ridisegnare il volto della rete pubblica amica).
Il popolo democratico, per ora, non è scaldato né avvinto dalla sfida Bersani-Franceschini-Marino. Un mese di campagna congressuale – presentazioni delle candidature, dichiarazioni d’intenti, botta e risposta mediatici – è passato senza quasi lasciare traccia. Al momento solo uno su cinque tra gli elettori del partito che si dicono interessati alle primarie, e che sono ovviamente molti meno di quelli totali, si dice sicuro di volersi recare al seggio per partecipare alla scelta del nuovo segretario. Fa ancora più impressione il dato sull’elettorato complessivo: solo l’8 per cento ha deciso con certezza di votare il 25 ottobre. Per un partito che, giustamente, non vuol rinunciare a farsi maggioranza, e quindi a parlare anche a quel pezzo di paese oggi collocato dall’altra parte della barricata, è l’ennesima prova che le basi per puntare a uno sfondamento nel campo altrui sono interamente da costruire.
Tradurre queste percentuali in numeri assoluti è difficile e forse ozioso. È sufficiente dire che, di questo passo, il prossimo ottobre non sarebbero raggiunti né i tre milioni e mezzo di votanti che nel 2007 legittimarono Walter Veltroni come primo segretario del Pd né, tantomeno, i quattro milioni e mezzo che alle primarie dell’Unione nel 2005 parteciparono alla designazione di Romano Prodi alla premiership. Sia il Professore che l’ex sindaco di Roma hanno dilapidato in fretta i rispettivi plebisciti popolari. Ma, sebbene abbia sempre aleggiato il sospetto di un’affluenza gonfiata un po’ a spanne, le corpose file ai seggi testimoniarono in modo non smentibile – in primo luogo agli stessi dirigenti e militanti – il successo delle primarie fin qui svolte. Stavolta il rischio è che manchi persino l’effetto placebo delle tornate precedenti. Rischio aggravato dalla prospettiva che nessun candidato raggiunga la maggioranza relativa (Bersani viaggia poco sopra il filo del cinquanta per cento dei voti) e che dunque – come vuole il bizantino statuto partorito quando era in auge il «partito liquido» veltroniano – il destino delle primarie sia di essere invalidate, rimandando l’elezione del segretario all’Assemblea nazionale.
Non servivano nuovi sondaggi per stabilire che il Pd gode di cattiva salute. In questi dati risuona però un messaggio politico chiarissimo. Non traspare solo lo smarrimento dell’elettorato democrat e la strisciante disaffezione per le primarie, strumento di cui a sinistra è stato certamente fatto abuso negli ultimi anni. C’è l’ammonimento a non illudersi nemmeno per un giorno che le primarie di ottobre, chiunque le vinca, siano di per sé un passaggio capace di rinvigorire il partito e il suo leader. Ammesso e non concesso che l’affluenza sia alla fine buona, non sarà comunque una fila al gazebo a segnare un «nuovo inizio».
Concordo. Già è difficile che vadano a votare nei giorni “comandati”. Figuriamoci per le primarie.
Sì, l’idea è bella, ma secondo me cozza contro lo scarso dinamismo di tutti gli italiani. Le primarie non sono nella nostra tradizione. Ed uscire di casa per andare a votare dai più è considerata una rottura di cosiddetti, rendiamocene conto.
Ma in linea teorica le primarie sono un metodo civilissimo di selezione della classe dirigente. A me l’idea è sempre piaciuta molto.
Probabilmente è stato un fuoco di paglia all’epoca dell’elezione di Veltroni. Francamente non ce li vedo gli italiani a slombarsi per le primarie. Neanche quelli più di buona volontà che senza dubbio albergano dalle vostre parti …