Luciana Cimino su www.unita.it
Sono le 7.45 del 29 agosto quando suona il citofono di Casa Grassi, a Palermo. «Signora suo marito è in casa?». Poche parole, in apparenza innocue ma che raggelano Pina Maisano. Non ha bisogno di scendere le scale. Capisce subito quello che è successo. Palermo ha abbandonato suo marito, Libero, che ora giace riverso per strada colpito a morte da 5 colpi di pistola mentre stava raggiungendo lan sua fabbrica. Cinque colpi in faccia per cancellare un volto diventato simbolo di speranza e legalità. Da allora ogni anno all’angolo di quella strada, Pina e i suoi figli Alice e Davide, attaccano un manifesto vergato con le loro mani che recita: «Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato».
Non c’è bisogno di una targa, che poi diventa parte del paesaggio urbano e non si nota più, e assieme ad essa scolorisce il ricordo. Più forte è il manifesto, perchè in vent’anni le cose non sono poi di molto cambiate e «la voragine dell’oblio è sempre in allerta». Pina Maisano racconta suo marito, l’eroe antimafia ma soprattutto l’uomo, in un libro scritto con Chiara Caprì, scrittice 25enne e socia fondatrice di “Addiopizzo”, l’associazione che è nata proprio sulle orme e sull’esempio dell’imprenditore palermitano, “Libero, l’imprenditore che non si piegò al pizzo” (Castelvecchi edizioni). «I miei nipoti».
Così Pina chiama i ragazzi di Addio Pizzo che «dice cose che erano già state dette da Libero – scrive – e ha avuto il merito di riuscire a realizzarle, a mettere insieme i commercianti, risvegliare la società civile». Quello che a Libero Grassi, lasciato solo, non era riuscito. Palermo e la Sicilia, evidentemente, non erano pronti. Allora, come ricostruisce dettagliatamente Pina con Chiara Caprì, i colleghi di Grassi si stupirono della ribellione, accusarono Libero di fare solo «una tammurriata», e cioè un caso per farsi pubblicità. Nessuno in città aveva capito la forza del gesto di Libero Grassi che pochi mesi prima aveva scritto una lettera pubblica al «caro estortore». «Volevo avvertire il nostro ignoto estortore che non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia (…) Per questo abbiamo detto no al “geometra Anzalone” (come si qualificava nelle minacce telefoniche l’esattore di Cosa Nostra, e a tutti quelli come lui».
Nessun solidarietà, racconta Pina. Non dal loro partito, i Radicali, del quale la famiglia Grassi era un punto di riferimento in Sicilia, non dall’Api, l’associazione piccoli imprenditori, non dalla città. Arriva solo un telegramma dal gruppo consiliare del Partito Comunista siciliano. Poi arrivano Michele Santoro e Maurizio Costanzo, con una trasmissione a reti unificate Rai e Finivest interamente dedicata a Libero Grassi e l’Italia ha modo di conoscere l’uomo che per primo si era ribellato al racket. Nel libro di Chiara Caprì Pina ricostruisce la figura di un uomo «libero». «Non è solo un nome per me, è un aggettivo», diceva lui di se stesso. Il coraggio imprenditoriale nel fondare una fabbrica di biancheria nel deserto siciliano, il padre esemplare innamorato dei suoi figli, l’esercizio continuo della propria coscienza civile ed etica negli anni del sacco di Palermo ad opera del sindaco mafioso Vito Ciancimino e di Salvo Lima.
Racconta il loro amore contrastato (la famiglia di Pina si oppose perché Libero era già divorziato), la loro intesa intellettuale, il rispetto e la passione che li unirono fino al barbaro assassinio di lui. E pubblica per le prima volta le struggenti lettere d’amore che Libero le scriveva. «Mia cara tienimi vicino e amami quanto si possa amare così come io ti amo. Tu sei quella che aspettavo: ti ho riconosciuta e non ti lascerò, amore mio». Ma dalle pagine emerge anche forte il ritratto di una donna particolare, una «combattente», che il martirio di suo marito non ha fermato. Per descrivere la sua tenacia e il suo impegno etico basta citare un’episodio: Pina nel 1993 si ritrova, in quanto parlamentare radicale, a far parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato che deve esaminare le richieste della Procura di Palermo e di quella di Roma di processare Giulio Andreotti per associazione mafiosa e per l’omicidio del giornalista Pecorelli.
Domanda quindi in maniera impertinente al senatore a vita: «ma lei nella sua posizione non poteva non sapere, visti i suoi rapporti con Lima e Ciancimino, quale fosse la situazione a Palermo, non è così?». Andreotti dapprima non risponde, poi le si avvicina e dice «mia cara signora appena tutto questo sarà finito, risponderò alla sua domanda». Finiti i processi che lo riguardavano, nel 2003 Pina scrive ad Andreotti per ricordargli la promessa: «adesso che “tutto questo è finito” io, che ho fiducia nei magistrati vorrei sapere da lei». Andreotti la liquiderà con un bigliettino da una riga e mezzo: «grazie cara collega della lettera gentile e dei ricordi di un periodo interessante». Ben altra risposta riceverà dall’allora Presidente della Repubblica Ciampi quando, indignata, chiederà conto delle parole del ministro Lunardi che aveva detto, nel 2001, che «con la mafia e la camorra bisogna conviverci». Una donna indomita, come lo sono i suoi figli, cresciuti nell’esempio del padre. La foto di Davide che mentre solleva la bara del padre alza le due dita in segno di vittoria, rimarrà nella storia dell’antimafia.
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