Oggi sono intervenuto in aula sulla c.d. riforma del lavoro (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). Di seguito riporto il mio intervento, senza togliere o aggiungere una virgola.
“Circa tre mesi orsono, per la precisione lo scorso 23 marzo, è iniziato l’iter di questo provvedimento con la presentazione da parte del Ministro Fornero al Consiglio dei Ministri di una relazione, poi tradotta in articolato normativo.
In tale relazione – giova ricordarlo – per quel che concerne il tema della disciplina del licenziamento erano previste drastiche modifiche sul fronte delle tutele apprestate a favore del lavoratore illegittimamente licenziato.
Modifiche in base alle quali la tutela reale non avrebbe più dovuto trovare applicazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tale ipotesi è stata avversata dal Partito Democratico, ed il Segretario Pierluigi Bersani ha richiesto ed ottenuto una modifica sostanziale.
Il Pd rivendica il merito di avere ottenuto il mantenimento della cd. Tutela reale, anche nel caso di licenziamenti economici, con la conseguente funzione deterrente che a tale tutela corrisponde, sia pure per i soli casi di evidente pretestuosità del recesso.
Abbiamo arginato il tentativo di destrutturare la tutela reale, non per rimpianto di un passato che non c’è più, ma per anelito di un futuro che non c’è ancora. Nella convinzione che essa rappresenti un punto di equilibrio avanzato tra capitalismo e democrazia, e che in realtà altri siano gli ostacoli che si frappongono ad una sempre maggiore presenza di investitori stranieri nel nostro Paese.
Nei giorni scorsi il Ministro Fornero ha sollecitato il mondo degli imprenditori a utilizzare “cum grano salis” delle opportunità che la nuova disciplina offre.
La preoccupazione del Ministro, ci inquieta e pure molto e vorremmo essere rassicurati dal Ministro e non dal Presidente Squinzi.
Invero il combinato disposto tra modifiche legislative (annunziate da mesi, con il naturale effetto annunzio: procrastino i licenziamenti al momento in cui entrerà in vigore la disciplina meno restrittiva) e crisi economica dovrebbe indurre ad un certo allarme.
Non vorremmo che tra qualche mese questa Aula si dovesse trovare a ragionare del caso esodati, II parte.
Il provvedimento è zeppo di quelle che gli anglosassoni definiscono wishful thinking, speriamo di non dovere constatare la realizzazione di soli effetti negativi.
Nel merito è opportuno segnalare alcune evidenti incongruenze contenute nel testo normativo approvato dal Senato e che questo Camera si appresta a votare senza modifiche, per un doveroso ossequio alla Ragione di Stato.
Limiti di ordine tecnico, evidenti e irrazionali disparità di trattamento che sarebbe il caso di risolvere tempestivamente, prevenendo le questioni di illegittimità costituzionale che potrebbero essere sollevate e, ancor prima, le incertezze interpretative che certamente causeranno.
Al proposito si rinvia ai pareri resi dalla Commissione Giustizia e dal Comitato per la legislazione.
Nel nuovo assetto normativo il potere di licenziare viene rafforzato, e a fronte di tale rafforzamento, vengono introdotte delle procedure che devono essere rispettate e degli obblighi, tra i quali spicca l’obbligo di contestuale motivazione dell’atto di recesso.
Perché l’atto datoriale sia legittimo, il potere deve essere esercitato nel rispetto delle procedure (comunicazione preventiva alla direzione del lavoro competente per territorio, o procedure di cui alla legge 223 del 1991 nel caso di licenziamenti collettivi) e in modo trasparente (obbligo di contestuale motivazione di cui al comma 37 dell’art. 1).
Alla luce di tale inconfutabile assunto è evidente l’incongruenza con la previsione di una tutela meramente risarcitoria, da 6 a 12 mensilità nel caso in cui la motivazione non venga fornita (tutela inferiore a quella prevista per il licenziamento giudicato illegittimo per carenza di giusta causa o giustificato motivo).
Con l’evidente corollario che in tal caso non trova applicazione il proverbio “fatta la legge, trovato l’inganno”, è la legge stessa a suggerire l’inganno.
Il datore di lavoro potrà limitarsi a licenziare senza precisare i motivi e correrà il rischio di pagare, al più, un anno di retribuzione.
A nulla vale il riferimento alla possibilità per il lavoratore di dimostrare un difetto di motivazione, il lavoratore, in assenza di motivazione del licenziamento cosa dovrebbe attaccare non è affatto chiaro.
Altrettanto incongrua appare la sanzione meramente risarcitoria, in materia di licenziamenti collettivi nel caso di violazione delle procedure.
La violazione della procedura deve essere sanzionata con il massimo della sanzione, in caso contrario tutto l’edificio finirebbe per non reggere.
Infine, com’è noto, il Governo con il presente disegno di legge intende ridurre il dualismo che caratterizza il mercato del lavoro italiano.
A ben vedere in realtà la complessità e la segmentazione aumentano, con inevitabili incertezze.
Alla ripartizione tra tutela forte (prevista dall’art. 18 della legge 300 del 1970, con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o più di 60 nel complesso) e tutela debole (tutela risarcitoria applicata nel caso di licenziamento adottato da imprese ricadenti sotto le soglie dimensionali di cui si è detto), si è aggiunta la sub distinzione tra tutela forte reale e tutela forte risarcitoria.
Pertanto il medesimo vizio, l’annullabilità del licenziamento, potrà dar luogo alla reintegra o al risarcimento del danno, non solo in base alle dimensione delle imprese, ma anche a seconda che i fatti posti a fondamento del licenziamento non sussistano o non sussistano manifestamente.
Per concludere, uno dei padri del diritto del lavoro italiano, Umberto Romagnoli, ci ha insegnato che “…il diritto del lavoro non nasce per cambiare il mondo, ma per renderlo più accettabile…”, con il disegno di legge oggi in discussione non cambieremo il mondo è certo, ma lo renderemo più accettabile? Io francamente non lo credo e mi auguro che, in ossequio agli impegni assunti dal Presidente Monti, si intervenga rapidamente.”
Mi ha fatto piacere leggere queste parole. Mi auguro non rimangano inascoltate come spesso è abitudine di una rilevante fetta della classe dirigente.
Io non avrei modificato tanto pesantemente l’articolo 18 (che contino a ritenere un segno di civiltà nella legislazione del lavoro), ma avrei ragionato più fortemente sul significato di “giusta causa”.
Tuttavia, se è questo lo scenario nel quale il lavoratore oggi deve muoversi, facciamo di tutto affinché strumenti correttivi riequilibrino rapidamente il gravissimo sbilanciamento che la norma, così come è, ha generato nei rapporti tra il datore di lavoro e il lavoratore.