La relazione d’apertura di Stefano Fassina alla Conferenza Nazionale per il Lavoro
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Oggi, siamo al passaggio conclusivo di un lungo percorso. È stato un percorso aperto. Un percorso di apprendimento collettivo. Abbiamo incominciato a costruire una lettura condivisa. Una consapevolezza comune. Abbiamo riscontrato quanto articolata e variabile è la condizione del lavoro oggi in Italia.
Abbiamo incontrato gli operai della Vynils a Porto Torres e a Porto Marghera, quelli della Fiat a Termini Imerese, a Pomigliano, a Mirafiori e quelli di Fincantieri qui a Genova e a Castellammare. Le donne e gli uomini della Thyssen e della Basel a Terni. Gli ingegneri informatici dell’Eutelia. I precari delle pubbliche amministrazioni, offesi dal Ministro Brunetta, al quale ribadiamo la richiesta di dimissioni. I precari dei call center. Gli artigiani della provincia di Verona ed i giovani avvocati a Roma. I micro-imprenditori de L’Aquila e gli insegnanti a Palermo.
Il lavoro nel primo scorcio del XXI secolo si esprime in una straordinaria varietà e variabilità di condizioni materiali, storie personali e collettive. Anche conflitti fondati su interessi diversi, non su un’ideologia antagonista come racconta la vulgata del Ministro Sacconi. Un tratto comune, sotto traccia, esiste. E’ la domanda di dignità del lavoro. E’ la volontà di affermare il lavoro come fonte di dignità della persona e pilastro della Costituzione. E’ la disponibilità a convergere su un progetto di cambiamento progressivo per l’Italia.
La sfida investe il “senso del lavoro”, prima ancora che il piano programmatico. E’ la sfida che la “Caritas in veritate” di Benedetto XVI, l’analisi più lucida della grande transizione in corso, pone alla politica. E’ la sfida sulla quale siamo impegnati: ridefinire il senso del lavoro per affermare, nel quadro di un’economia globale oggi senza regole democratiche, un “neo-umanesimo integrale”.
E’ una sfida ambiziosa in un “tornate storico” difficile. E’ sbagliato insistere a definire “crisi” la fase in corso. Siamo, in realtà, in una “grande transizione” geo-economica, geo-politica, tecnologica e demografica. E’ una fase di straordinario cambiamento. Il punto politico è: quale cambiamento? Il futuro è già scritto? L’alternativa in campo è resistere o cambiare lungo la strada della modernità regressiva? Nella divisione sindacale su “Fabbrica Italia” abbiamo avvertito il rischio di cadere nell’alternativa tra resistenza e rassegnazione.
No, l’alternativa non è resistere o cambiare. Innovare è necessario. Ma, l’alternativa è nel segno dell’innovazione. Progressiva o regressiva? In altri termini, la politica può tornare a regolare l’economia, oppure deve rimanere ancella ed eseguire le ricette dettate da ristrette oligarchie economiche e messe in bella forma da una parte delle forze intellettuali dell’accademia e dei media?
Oggi, il lavoro subisce rapporti di forza sfavorevoli come mai è stato nel secolo alle nostre spalle. Il capitale fa shopping globale di lavoro. Gli strumenti istituzionali, politici e sindacali per affermare il lavoro sono spuntati in quanto chiusi nello Stato nazionale. Così, in nome della possibilità di lavorare, le persone, prima che le organizzazioni sindacali, devono accettare ulteriore regressione delle condizioni del lavoro. Questa è la chiave per comprendere la vicenda Fiat e tante altre vicende, avvenute ovunque senza titoli di apertura dei media, nel ventennio alle nostre spalle. L’a.d. di Fiat-Chrysler fa il suo mestiere. Tuttavia, l’interesse legittimo della proprietà dell’impresa non è l’interesse generale. L’interesse dell’impresa diventa interesse generale quando è combinazione virtuosa di due interessi distinti: la proprietà dell’impresa ed il lavoro. È un patto, non è un atto unilaterale in nome di una modernità integralista.
La nostra sfida
Noi raccogliamo la sfida dell’innovazione progressiva. La nostra sfida è valorizzare il lavoro come fonte di identità della persona e fondamento della democrazia. La nostra stella polare è l’art 1, l’art 3 e l’art 4 della nostra insuperabile prima parte della Costituzione. Il lavoro inteso nella sua generalità. Innanzitutto, l’anello più debole della catena, l’area sociale che più ha sofferto l’offensiva liberista: il lavoro subordinato, in tutte le sue forme, esplicite o coperte dal contratto a progetto o dalla Partita Iva. Poi, il lavoro autonomo vero. Il lavoro professionale. Il lavoro dell’imprenditore datore di lavoro. Oggi, nella recessione, siamo tutti nella stessa barca. Vero. Ieri, quando i profitti c’erano, eravamo su barche diverse. Pochi saltavano avanti. Troppi rimanevano indietro.
La nostra è in primo luogo un’opzione etico-politica. Ma, è anche un’opzione per lo sviluppo sostenibile. Equità e sviluppo vanno insieme. L’equilibrio saltato tra il 2007 e 2008 era insostenibile in quanto sorretto dalla regressione del lavoro nelle economie mature e dalla conseguente massiva concentrazione del reddito e della ricchezza. La finanza allegra era funzionale ad alimentare a debito la macchina dei consumi. Oggi, siamo prigionieri della stagnazione nelle economie mature perché, invece di invertire il senso di marcia, insistiamo nella regressione del lavoro, direttamente nel mercato del lavoro o smantellando il welfare.
Il nuovo non è neutro. Spesso è passato remoto camuffato da modernità. Noi vogliamo dare un segno progressivo all’innovazione. E’ difficile, ma è possibile. Gli eventi degli ultimi mesi lo dimostrano.
Le domande delle piazze del Maghreb sono domande di lavoro, di miglioramento delle condizioni materiali di vita. Certo. Ma sono sopratutto domande di libertà, di dignità della persona.
Sono le stesse domande che assillano i protagonisti dei due video iniziali. Le domande dei giovani precari e disoccupati a all’angolo di Porta Portese a Roma prima della bella manifestazione “Non +” del 9 Aprile scorso e le domande degli adulti, i quarantenni e cinquantenni “sprecati”.
Sono le stesse domande che il centrosinistra e, in particolare, il Pd hanno incrociato nelle recenti elezioni amministrative e nei referendum di settimana scorsa. Sono domande di recupero di centralità della persona, di riappropriazione della politica, di riavvio della regolazione democratica dell’economia. Noi siamo riusciti ad intercettare la domanda di cambiamento progressivo perché abbiamo messo in campo un profilo identitario autonomo ed adeguato. La nostra responsabilità oggi è dare risposte operative efficaci per promuovere i beni pubblici. Non si può tornare indietro.
Attenzione: qui c’è uno snodo politico decisivo. Le domande di cambiamento progressivo rischiano di rimanere senza risposta perché la politica, prigioniera degli Stati nazionali, non è all’altezza dell’economia globale. Non a caso, nell’UE, si rafforzano ovunque, anche nei porti un tempo sicuri delle democrazie nordiche, i populismi nazionalisti. Non a caso, dilagano le proteste degli “indignatos” a Puerta del Sol o davanti al Parlamento di Atene segnate anche dall’antipolitica. Le democrazie nazionali non hanno strumenti adeguati per rispondere alle domande. Questione democratica e questione sociale sono insieme, ma rischiano il cortocircuito. La debolezza della democrazia ha le stesse radici della debolezza del lavoro. Il futuro del lavoro è il futuro della democrazia.
Padri e figli
Oggi, siamo di fronte ad una “emergenza giovani”. Non solo precarietà, ma disoccupazione ed inoccupazione. Il bassissimo tasso di occupazione giovanile, riflesso di chi cerca lavoro e non lo trova e di chi non lo cerca più perché scoraggiato, deve diventare la nostra ossessione quotidiana. Le condizioni delle giovani generazioni sono drammatiche.
I giovani sono l’area di sofferenza più acuta di uno smottamento che ha segnato l’insieme del variegato universo del lavoro del settore privato. Non soltanto le fasce più in basso, ma anche, ecco la novità economica e politica, la stragrande maggioranza delle classi medie. Il 90% dei lavoratori ha perso reddito e ricchezza a vantaggio del 10% più in alto.
Emergenza giovani. Ma, l’interpretazione duale delle condizioni del lavoro non regge la prova dei dati di realtà. L’universo del lavoro del settore privato, in particolare del lavoro sostanzialmente subordinato, non é divisibile in figli precari e padri garantiti. La formula magica “meno ai padri, più ai figli” ha portato “meno ai padri e ancora meno ai figli”.
I padri garantiti non sono i lavoratori con qualche residua ed illusoria tutela, come indicano le gravi crisi aziendali ricordate prima. Ma, aree estese di rendita resistono tenacemente nell’economia. Lo dimostrano i dati vergognosi sulla mobilità sociale. Da noi, la metà dei figli eredita la posizione sociale ed economica della famiglia. Insomma, la principale linea di conflitto è sociale, prima che generazionale. Il vento del cambiamento deve portare concorrenza e merito.
Allora, per rispondere davvero alle sempre più angosciate domande di futuro delle generazioni più giovani dobbiamo affrontare il nodo del sentiero di sviluppo e dei modelli di consumo e dell’ordine sociale promosso dalle politiche liberiste per un trentennio. Per rispondere alle aspettative delle giovani generazioni dobbiamo alzare lo sguardo.
Il rilancio politico dell’Unione Europea
Che fare?
Lo abbiamo indicato nel nostro Programma Nazionale di Riforma discusso con le parti sociali il 21 Marzo e proposto, inutilmente, al Ministro Tremonti per la discussione parlamentare.
La politica economica comune definita dai governi di centrodestra in Europa va riorientata. La governance economica comune ha fatto passi avanti. Ma la direzione di marcia è sbagliata. Sappiamo tutto sul livello dei debiti sovrani e delle fragilità bancarie. Conosciamo i decimali delle previsioni di inflazione. Mai sentiamo dire che dalla metà del 2008, nell’UE 7 milioni di uomini e donne hanno perso il lavoro, circa 1 milione in Italia, inclusi i cassaintegrati. Innanzitutto i più giovani.
L’Unione europea deve dotarsi di un motore autonomo di sviluppo alimentato dal sostegno alla domanda interna. La linea mercantilista dei governi di centro-destra, giocata sulla ulteriore destrutturazione dei rapporti di lavoro e sui tagli al welfare, porta l’UE ha sbattere. Ogni giorno diventano più elevati i rischi di rottura. Oggi, l’ostacolo alla ripresa è la carenza di domanda aggregata. Sono necessari investimenti, in particolare nella green economy, fonte straordinaria di occupazione di qualità, da finanziare attraverso eurobonds, la Financial Transaction Tax, la tassazione ambientale. Inoltre, è decisiva la redistribuzione del reddito, sia per via contrattuale sia attraverso le politiche di bilancio.
Noi vogliamo dire la verità, una scomoda verità, alle generazioni più giovani: senza una strategia europea orientata allo sviluppo sostenibile, l’occupazione giovanile di qualità rimane una chimera. Il Pd non è solo in Europa. Non combattiamo contro i mulini a vento. Nella UE, gli altri partiti progressisti sono sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Settimana prossima Bersani incontra a Bruxelles gli altri leader progressisti europei per portare avanti un’agenda alternativa comune. Siamo insieme alla Confederazione Europea dei Sindacati, l’organizzazione unitaria di tutti i sindacati europei, la cui neo-eletta Segretaria Generale, Bernadette Ségol è qui con noi.
Oggi siamo lontani dall’obiettivo. Ma non dobbiamo scoraggiarci. Quanto era lontano per Altiero Spinelli l’obiettivo di una comunità europea quando, nel 1941, in un carcere fascista, scriveva “Il Manifesto di Ventotene”? Qualche giorno fa, di fronte alla miopia dei governi di centrodestra europei, sono state ricordate le parole di Jean Monnet: “L’Europa si costruirà sulle crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a tali crisi”.
La realizzazione dell’euro è stato il più grande atto di responsabilità nei confronti delle giovani generazioni. Ma Amato, Ciampi, Prodi, Napolitano e gli altri statisti europeisti lo hanno posto come prima tappa di una svolta politica. Purtroppo, non si è andati avanti abbastanza. Le forze progressiste devono rimotivare l’Unione Europea come strumento di democrazia effettiva e di promozione del lavoro nell’arena globale del XXI secolo.
I compiti a casa
L’insistenza sul rilancio progressista dell’UE non ci esime dai compiti a casa. Attenzione: la lettura duale dell’Italia declamata dal Ministro Tremonti è infondata. I dati smentiscono un Nord in corsa frenato da un Sud sempre più disperato. Come abbiamo indicato nel documento sul Mezzogiorno approvato dall’Assemblea Nazionale di Febbraio scorso, nel decennio pre-crisi le aree più dinamiche del Paese si sono allontanate dalla media europea più del Sud. L’Italia intera ha urgenza di riforme. La “Questione settentrionale” è questione nazionale tanto quanto lo è la “Questione meridionale”. La Lega ha perso le recenti elezioni perché ha continuato ad affrontare le domande del Nord su un piano di redistribuzione di risorse da soddisfare con l’appropriazione federalista. Non funziona. La questione settentrionale è questione di accumulazione, ossia di condizioni di competitività, di riforme.
Noi dobbiamo aprire una stagione di riforme nazionali. L’elenco è noto. Le riforme strutturali, innanzitutto la scuola pubblica umiliata dai tagli ciechi, le pubbliche amministrazioni, il fisco, le liberalizzazioni; le politiche industriali per l’innovazione e la green economy; gli investimenti nelle infrastrutture. Le priorità le abbiamo indicate nel nostro PNR. Servono un obiettivo storico: il tasso di occupazione femminile al 60% alla fine del decennio. Tre milioni di donne in più al lavoro. Un obiettivo sistemico. Una svolta per l’occupazione giovanile e meridionale. Una rivoluzione gentile.
Soltanto una stagione di riforme profonde può riavviare l’anemica produttività italiana. Purtroppo, il Governo Berlusconi per difendere tante posizioni di rendita ha polarizzato il nostro dibattito di politica economica sulla produttività del lavoro intesa come produttività dei lavoratori. Puntare sulla contrattazione di secondo livello per motivare i lavoratori e così innalzare la produttività è un contributo utile. Ma, il nostro problema di fondo è la produttività totale dei fattori, non la produttività dei lavoratori. L’anemia della nostra produttività dipende dai ritardi dei contesti produttivi: nelle infrastrutture e nella logistica, nei servizi pubblici e privati ai cittadini ed alle imprese, nei costi dell’energia, nel rispetto della legalità e nel civismo.
I nostri ritardi dipendono dagli incentivi perversi del nostro sistema fiscale, generoso con le rendite e punitivo con i redditi da lavoro e da impresa. Una perversione accentuata dai decreti sul federalismo fiscale che ha ridotto le tasse sulle rendite immobiliari senza toccare le rendite finanziarie e innalzato le imposte sul patrimonio aziendale di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori.
I nostri ritardi dipendono anche dalla carenza di investimenti delle imprese e dallo scarso contenuto innovativo degli investimenti effettuati. Tra le nefaste conseguenze dei contratti low cost, oltre all’impoverimento della qualità della vita delle persone, c’è stato anche il disincentivo agli investimenti innovativi.
I nostri ritardi di produttività dipendono anche dalla qualità del management delle imprese. La differenza fondamentale tra l’Italia e gli altri grandi Paesi Europei e gli USA non è nella diffusione delle imprese familiari quanto nel fatto che nelle imprese familiari degli altri soltanto un terzo del management viene dalla famiglia, mentre in Italia supera i 2/3.
Infine, ma non ultimo, i nostri ritardi di produttività dipendono dall’assenza di soluzioni giuridiche, fiscali, amministrative, di politiche industriali in grado di valorizzare la nostra dimensione prevalente di impresa. Piccolo non è né bello, né brutto in se. Dipende dal contesto nel quale è inserito.
Un Progetto nazionale per l’occupazione giovanile e femminile.
L’emergenza della disoccupazione giovanile e femminile non può essere affrontata con interventi spot e toppe sullo status quo. Dobbiamo innovare radicalmente. Proponiamo un Progetto Nazionale per l’occupazione giovanile e femminile a cui concorrano, in modo coordinato e sinergico, con obiettivi certi e monitorabili, governo, regioni, province, comuni e parti sociali. I vincoli di finanza pubblica sono stringenti e vanno osservati. L’attuazione non può che essere graduale. Le risorse finanziare vanno recuperate dai fondi europei, nazionali e regionali e dai fondi interprofessionali per la formazione.
Il Progetto dovrebbe prevedere:
– l’eliminazione dei vantaggi di costo del lavoro precario rispetto al lavoro stabile, un integrazione fiscale per sostenere le pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e la drastica riduzione delle forme contrattuali.
– una riforma vera del contratto di apprendistato, non strumento per abbattere il costo del lavoro, ma contratto effettivamente a causa mista per garantire formazione adeguata e certificata, durata minima e massima congrua e accesso fiscalmente agevolato al lavoro stabile.
– il potenziamento dei servizi pubblici per conciliare lavoro e maternità ed un significativo aumento della detrazione fiscale per le mamme che lavorano.
– la defiscalizzazione per i primi tre anni di attività delle imprese avviate da giovani.
– un salario o compenso minimo, determinato in relazione ai minimi dei contratti nazionali di riferimento.
– la regolazione e la remunerazione degli stage.
– indennità di disoccupazione e tutele fondamentali per tutte le tipologie di lavoro, dipendente, autonomo, professionale.
– l’universalizzazione dell’indennità di maternità e il ripristino delle norme di contrasto alle “dimissioni in bianco”.
– la riforma della formazione professionale e della formazione continua.
– l’introduzione di uno Statuto per i lavoratori autonomi ed i professionisti.
Contratti, rappresentanza, democrazia nei luoghi di lavoro, governance delle aziende
Il CCNL va riformato, ma il CCNL è irrinunciabile. I contratti nazionali vanno ridotti di numero e assottigliati nella dimensione regolativa. Il secondo livello di contrattazione va valorizzato, ma non può vanificare il CCNL. Il contratto nazionale rimane uno strumento insostituibile per garantire coesione sociale e territoriale del paese e qualità delle strategie competitive.
È urgente definire le regole per la rappresentanza e rappresentatività sindacale e la democrazia nei luoghi di lavoro per soddisfare due requisiti: garantire l’esigibilità degli accordi sottoscritti e garantire la piena agibilità sindacale anche alle organizzazioni non firmatarie degli accordi. In tale quadro, consideriamo come base della discussione il documento unitario di CGIL, CISL e UIL del maggio del 2008, il quale è, a sua volta, incardinato nei principi vigenti per il pubblico impiego. Quindi: centralità delle RSU, ossia rappresentanze sindacali elette da tutti i lavoratori; misurazione e certificazione indipendente della rappresentatività delle singole organizzazioni in base al mix di iscritti ed elettori.
Per validare i contratti, tema di rilevanza costituzionale, riteniamo vada confermata la centralità della democrazia delegata, ossia la validazione a maggioranza del 50%+1. Riteniamo anche che vada riconosciuto, sia per i contratti aziendali che nazionali, alle organizzazioni sindacali non firmatarie e dotate nel loro complesso di una elevata rappresentatività o ad una ampia percentuale di lavoratori interessati dal contratto, il diritto di sottoporre l’esito del negoziato al referendum.
Un eventuale accordo separato sulle regole della rappresentanza e della democrazia sarebbe per il Pd insostenibile e miope. Le regole del gioco devono essere condivise. Soltanto regole condivise possono alimentare il consenso per rendere esigibili erga omnes le decisioni prese in una fase di contenimento dei costi del lavoro e di indurimento delle condizioni di lavoro.
Noi riteniamo che una legge sia utile per sostenere un accordo tra le parti. È strumentale e pericoloso l’improvviso innamoramento del Ministro Sacconi per la legge. È velleitario tentare di imporre una legge sulle regole della democrazia nei luoghi di lavoro a colpi di maggioranza parlamentare, soprattutto quando si tratta di una maggioranza parlamentare posticcia, netta minoranza nel Paese e la soluzione legislativa proposta è priva del consenso necessario al suo funzionamento. In una fase così difficile, avremmo bisogno di un Ministro all’altezza delle sue responsabilità istituzionali. Invece, da tre anni abbiamo a che fare con un Ministro intento a realizzare un suo disegno neo-corporativo nei contratti e nel welfare e a fare del lavoro l’unica variabile di aggiustamento dei problemi di competitività dell’Italia.
Infine, il diritto di informazione e partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alle scelte strategiche delle imprese, come previsto dall’art. 46 della nostra Costituzione. Il PD ha presentato proposte di legge per il pieno riconoscimento dei diritti d’informazione e consultazione dei lavoratori, l’istituzione di comitati consultivi permanenti, la promozione del sistema dualistico di governance aziendale con l’inserimento di rappresentanti eletti dai lavoratori nei consigli di sorveglianza. Sono proposte sulle quali il PD chiede a tutte le forze politiche e sociali di misurarsi al più presto.
L’agenda di politica economica del governo
L’Italia è in uno scenario più difficile del ’92-’93. Le tre principali variabili compensative degli effetti del pesante aggiustamento fiscale allora compiuto sono oggi assenti: non possiamo svalutare; non possiamo contare sull’effetto dell’abbattimento degli spread sui tassi di interesse; non possiamo affidarci al traino della domanda europea, in quanto i programmi di aggiustamento fiscale riguardano pesantemente tutta l’UE.
Noi abbiamo sostenuto, sin dall’estate 2008, che la priorità per ridurre il debito pubblico è l’innalzamento della crescita potenziale. Quindi, riforme strutturali, politica industriale, investimenti innovativi e spending review per ridurre e riqualificare la spesa. Il governo, per tutelare la coalizione della rendita, ha fatto il contrario. È andato avanti con tagli ciechi alla spesa, in particolare agli investimenti e aumenti surrettizi di entrate. Oggi, la linea comune decisa dai governi di centrodestra in Europa e le scelte sbagliate del governo italiano soffocano l’economia. Perseguire il pareggio di bilancio al 2014 implica recessione ed aumento della disoccupazione e fallimento degli obiettivi fissati. È un obiettivo irrealistico.
Il governo deve chiarire al più presto, in Parlamento, che cosa intende fare. Non tenti di scaricare le responsabilità sulle spalle di chi viene dopo. Se non è il grado di scegliere, subito perché i mercati non aspettano Scilipoti, segua il messaggio chiaro delle urne. Vada via.
Una riflessione sul Pd
L’impianto culturale della nostra posizione sul lavoro, la centralità del rapporto persona-lavoro-democrazia sarebbe stato difficile declinarla senza il contributo della pluralità di culture presenti nel Pd. L’amalgama qui è riuscito. È stato il risultato di un’intensa discussione ed elaborazione collettiva. Una sintesi innovativa ed adeguata alle sfide di fronte a noi.
Il Pd si è affermato nelle difficile tornata elettorale appena chiusa in quanto ha incominciato ad essere in campo con un profilo identitario chiaro ed adeguato. Ora, abbiamo la responsabilità di costruire uno schieramento largo intorno ad un programma di ricostruzione morale ed economica dell’Italia. Uno schieramento oltre i confini della politica. Uno schieramento in grado di raccogliere le energie positive, le forze fresche della società civile protagoniste della tornata delle elezioni amministrative e dei referendum. Uno schieramento largo e plurale all’altezza di una sfida di portata costituente, tanto sul terreno istituzionale che economico e sociale.
In conclusione
L’obiettivo del Pd è avviare la costruzione di un’alleanza tra le persone che lavorano. Non un blocco sociale omogeneo e statico, ma un’alleanza tra interessi diversi. Ricostruire il legame sociale unitario tra le persone per dare soggettività politica al lavoro. La soggettività politica del lavoro è condizione imprescindibile per dare anima, forza culturale ed etica all’alternativa politica. Il lavoro, nella grande transizione in corso, si propone come soggetto generale, non sommatoria di interessi parziali e corporativi.
In tale scenario, per fare le riforme necessarie, abbiamo bisogno di un patto di portata costituente. Un patto tra le forze politiche, sociali ed economiche consapevoli che, oggi, affermare l’interesse generale del Paese è condizione per perseguire legittimi interessi di parte.
Noi ci siamo. Noi non ci rassegniamo al declino del lavoro. Noi vogliamo contribuire a scrivere il cambiamento progressivo per un futuro di lavoro e di libertà.
Per le persone, per il lavoro, per la democrazia.
Per far tornare a sperare i ragazzi e le ragazze italiane ed europee.
Stefano Fassina
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