Una riflessione su De Felice, Catania e le opportunità per i giovani, ieri e oggi

astuto1C’è stata una stagione, ad inizio novecento, in cui Catania  iniziò la sua rincorsa alla modernità. Protagonista di quella stagione, la stessa in cui nacque il mito della Milano del Sud e la realtà di piazza Stesicoro riqualificata e cuore della Catania contemporanea, è stato Giuseppe De Felice, figura a cui lo storico Giuseppe Astuto ha dedicato un volume “Il vicerè socialista”. Dal libro del professore Astuto abbiamo tratto spunto, ieri pomeriggio durante il terzo appuntamento con “L’aperitivo dei lettori”, per un dibattito sulla modernizzazione della nostra città, sull’innovativo e controverso modo di amministrare di De Felice.

Un figlio della Catania popolare che, nonostante le umili origini e le personali disavventure familiari e giudiziarie, è riuscito a diventare primo cittadino in un periodo in cui la mobilità sociale era un miraggio. Leggere dell’ascesa dello “scamiciato” De Felice, orfano di padre e finito in carcere come organizzatore dei Fasci Siciliani, mi ha fatto riflettere su quale potrebbe essere il destino di un ragazzo di ceto popolare nella Catania di oggi. La risposta che mi sono dato: destino segnato e nessuna chance di riscatto. Questo mi convince, ancora di più di quanto io non sia già sicuro, che il criterio di selezione della classe dirigente ai giorni nostri è una grande questione da affrontare se non si vuole ritornare indietro di un paio di secoli. In particolare penso che al Partito Democratico spetti il compito di riallacciare il dialogo con le classi popolari, di stare tra le persone, per essere un soggetto con cui soprattutto i giovani possano dialogare. E crescere.
Di De Felice, oltre che la sua singolare scalata, mi ha stupito la capacità di decifrare con larghissimo anticipo l’intreccio tra mafia e borghesia e forze dell’ordine corrotte. Una lettura lucida, precisa e anticipatrice di molte analisi sociologiche e giudiziarie ben più recenti.
Tra le pagine del libro di Giuseppe Astuto i cognomi di molti protagonisti sono quelli della Catania dell’inizio del ventunesimo secolo. Non è bel segnale, perché un sistema che non si rinnova non è un sistema efficiente.
Grazie a Giuseppe Astuto, Andrea Miccichè, Otello Marilli e Totò Bonura per aver reso brillante il dibattito e ai tanti amici intervenuti e che hanno accolto l’invito.

1 comment to Una riflessione su De Felice, Catania e le opportunità per i giovani, ieri e oggi

  • Lorenzo Catania

    I Fasci siciliani e quell’antipatia di Crispi per De Felice Giuffrida.
    Ha scritto Leonardo Sciascia, nel saggio “Del dormire con un solo occhio”, dedicato alla figura di Vitaliano Brancati, che “la catena delle avversioni tra siciliani è piuttosto lunga”. E ricorda il giornalista di punta del fascismo e antisemita Telesio Interlandi che non amava Giovanni Gentile, e poi il più o meno volontario ignorarsi tra Crispi e Di Rudinì, tra Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi, il “non incontrarsi” di Vittorini e Brancati negli anni dell’immediato secondo dopoguerra. Acuto osservatore di eventi marginali ma significativi, racchiusi entro le pieghe della storia, qui Sciascia dimentica la rivalità tra il politico di Ribera Francesco Crispi e il politico di Catania Giuseppe De Felice Giuffrida, nata nel contesto della drammatica vicenda dei Fasci siciliani (1892-1894), sulla quale ancora oggi i manuali di storia diffusi nelle scuole nulla o poco dicono. Organizzatore della spedizione dei Mille e mente politica della dittatura garibaldina nel Meridione, poi deputato della Sinistra dal 1861, Crispi si allontana progressivamente dal mazzinianesimo fino a diventare convinto monarchico. Negli anni in cui dirige il suo secondo ministero, Crispi si distingue per la violenta repressione dei Fasci siciliani, che ha tra i suoi ispiratori e capi G. De Felice Giuffrida, N. Barbato, R. Garibaldi Bosco, B. Verro, N. Petrina. Esponenti appassionati e combattivi agli albori del socialismo italiano, i dirigenti e organizzatori dei Fasci riescono a coinvolgere nelle battaglie per condizioni di vita più umane e dignitose i ceti subalterni dell’Isola che protestano contro il malgoverno locale, le tasse esose e chiedono terre da coltivare per i contadini e patti agrari meno iniqui. L’azione dei Fasci tocca il culmine nell’estate del 1893, quando vengono stabilite le condizioni da sottoporre alla parte padronale per il rinnovo dei contratti di mezzadria e di affitto. Nei mesi seguenti scioperi e violenti scontri sociali si diffondono ovunque. Nominato Presidente del Consiglio nel dicembre del 1893, in un primo momento Crispi pensa di poter riportare la calma in virtù del suo prestigio e con la promessa di provvedimenti, ma poi la situazione sfugge al controllo dei capi del movimento fino a sfiorare l’insurrezione a causa anche della mancanza di risposte governative. Di lì a poco, il 3 gennaio del nuovo anno, appoggiato dalla maggioranza del Parlamento e pressato dall’opinione pubblica borghese, il governo nazionale proclama lo stato d’assedio. G. De Felice Giuffrida (nonostante sia deputato) e altri dirigenti del movimento vengono arrestati e deferiti ai tribunali militari, che nel giro di pochi mesi emettono dure condanne: diciotto anni di carcere a De Felice Giuffrida, “onorato dall’odio personale di Crispi”, perché “ritenuto il capo dei Fasci e della cospirazione” (come scrive Giuseppe Astuto nel recente e assai documentato volume “Il Viceré Socialista. G. De Felice Giuffrida sindaco di Catania”, Bonanno editore, dopo il quale è ora più agevole allestire sul politico catanese una biografia redatta con criteri moderni e storicamente affidabili ), dodici a Bosco, Barbato e Verro. A chi in quegli anni lesse in chiave localistica la battaglia combattuta e perduta dai contadini siciliani, sfuggì che la sera del 3 gennaio 1894 insieme alla storia dei Fasci siciliani si concludeva il progetto di costruzione di una società italiana più giusta, come si coglie nelle parole di G. De Felice Giuffrida, che confutano l’accusa di eccitamento alla guerra civile : “Se in mezzo a noi ci fosse stato un solo capace di eccitare alla guerra civile, noi lo avremmo cacciato dalle nostre fila perché la nostra bandiera non è odio, ma splendida luce e di amore per tutti. Se avessimo voluto eccitare alla guerra civile, ognuno avrebbe agito nella cerchia della propria influenza. Noi dunque se responsabilità abbiamo, è quella di avere con nobili parole predicato ai lavoratori una nuova forma economica e politica che cammina con la civiltà”. Ma stridono anche con la visione socialmente ristretta dello Stato di Crispi, che vede nelle rivendicazioni sociali una minaccia all’unità della nazione e pertanto ritiene che solo alla borghesia e non alle masse spetta svolgere un ruolo attivo nella vita politica e nei processi decisionali. La data del 3 gennaio 1894 segna perciò una sconfitta della democrazia, del socialismo e del movimento operaio. Una cocente umiliazione della Sicilia e dell’intera nazione, se è vero che la flebile indignazione per i cruenti fatti di sangue isolani non è paragonabile alla reazione morale del paese di fronte alle cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris contro i milanesi che nel maggio del 1898 protestavano per il carovita.
    LORENZO CATANIA

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